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Confetto

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Il confetto è un dolce formato da una mandorla ricoperta di zucchero, ma sono ormai diffuse molte varianti formate da un nucleo di pistacchi, nocciole o cioccolato ricoperti, appunto, da zucchero. Si tratta di una specialità già dagli inizi usata come simbolo di fortuna e prosperità, prodotta fin dai tempi antichi. Spagna e soprattutto Italia hanno i più importanti centri di produzione di Confetti.

Storia

Le origini del nome
Il termine confetto deriva dalla parola confectum, ovvero il participio passato di conficere, che significa preparato, confezionato. Nel Medioevo questo termine era riferito alle confetture o alla frutta secca ricoperta di miele.
Il confetto ha una storia antichissima. Secondo alcune fonti che si avvalgono delle testimonianze della famiglia Fazi (447 a.C.) e di Apicio (14-37 d.C.), amico dell'imperatore Tiberio, il confetto era già conosciuto in epoca romana. Si narra infatti che gli antichi romani fossero soliti usare i confetti per celebrare nascite e matrimoni, solo che all'epoca, non essendo stato ancora scoperto lo zucchero, si usava il miele e si produceva un composto dolce che avvolgeva la mandorla, fatto di miele e farina.
Era considerato come una sorta di “bon bon” pregiato da mangiare durante le occasioni importanti. Un'altra teoria invece vuole il confetto originario del 1200 d.C. circa, periodo in cui sia le mandorle che le anici e i semi di coriandolo venivano ricoperti da uno strato di miele indurito. Anche in questo caso era un dolce molto apprezzato nelle famiglie nobiliari, le quali usavano conservarli in dei preziosi cofanetti decorati. Di questi prodotti se ne ha già notizia a Venezia (sempre nel 1200 d.C.), portati in città da mercanti provenienti dall'estremo Oriente. Era infatti usanza dell'impero bizantino gettare questi dolci dai balconi nobiliari sul popolo in festa durante i festeggiamenti di carnevale. Vi è un curioso aneddoto che attribuisce l'invenzione del confetto ad un medico di origine araba, tale Al Razi, che secondo le fonti tramandate, usava il confetto per fini teraupetici: il preparato medicinale amaro infatti veniva ricoperto da un guscio dolce per renderlo più gradevole, soprattutto per i bambini. Ma a parte gli aneddoti, la forma di confetto più simile a quella attuale nasce dopo la scoperta e l'importazione dello zucchero, il quale divenne indiscusso protagonista della dolcificazione, mettendo ai margini del settore confettiero, il miele, fino ad allora l'ingrediente dolce principale. Lo zucchero, che in Europa fa la sua comparsa già nel 700 d.C., importato dagli arabi, non divenne subito accessibile e popolare per tutti, per cui bisognerà attendere fino al 1400 d.C per vedere il suo utilizzo nella produzione di confetti. Ed è proprio in questo periodo che nasce a Sulmona (cittadina in provincia dell'Aquila in Abruzzo) la fabbricazione, intesa come moderna, dei confetti. E sempre in questo luogo, verso il XV secolo d.C, si sviluppava la lavorazione artistica dei confetti presso il Monastero di Santa Chiara. Qui, con dei fili di seta, venivano legati dei confetti per decorare fiori, grappoli, spighe, rosari. L'antica tradizione nella confetteria fa di Sulmona la più antica fabbrica italiana di confetti.
La storia del confetto continuò poi fino lungo i secoli. Nel periodo rinascimentale, ad esempio, gli ospiti venivano accolti con coppe ricolme di confetti, ciò avveniva durante i ricevimenti per festeggiare i voti di monache e sacerdoti. Anche lo Stato pontificio usava i confetti, dandoli come omaggio agli attori teatrali.

Lavorazione dei confetti

I confetti si producono utilizzando delle caldaie, in rame o in acciaio, che sono dette bassine. Queste si distinguono per forma, che può essere a pera o a tamburo e per il tipo di rotazione, che può essere su asse obliquo, orizzontali con fondo forato e diversi altri tipi.
La caldaia durante la lavorazione del confetto è a rotazione continua.
All'interno delle caldaie vengono utilizzate delle soluzioni di saccarosio che, ottenendo aria calda, evaporano, lasciando uno strato uniforme di zucchero sulla mandorla. Il processo continua con varie fasi di bagnatura ed essiccamento.
Dopo la fase di rivestimento con lo zucchero, la superficie del confetto appare rugosa e irregolare, quindi avviene la successiva fase di lisciatura e lucidatura.
Essendo la confettatura un processo che richiede molta laboriosità, la sua realizzazione può durare anche due o tre giorni.
È da menzionare inoltre che in tempi recenti si è scoperta l'applicazione del colore esterno sul confetto; questa fase di colorazione avviene dopo la lisciatura del prodotto.

Tipologie

I confetti possono essere di vari colori e ciascun colore, quando è offerto durante un'occasione, è appropriato per la cerimonia che si intende festeggiare. Esistono in commercio confetti di colore nero anche se questo colore simboleggia il lutto e perciò un evento triste.
Colore confetto
Ricorrenza
Azzurro
per celebrare la nascita e il battesimo di un bambino
Rosa
per celebrare la nascita e il battesimo di una bambina
variopinti
per celebrare un compleanno
Bianco
per celebrare un sacramento (prima confessione, prima comunione, cresima, matrimonio)
Verde
per celebrare un fidanzamento e la parola(promessa) in comune
Rosso
per celebrare una laurea
Beige
per celebrare le nozze di porcellana (15º anniversario)
Giallo
per celebrare le nozze di cristallo (20º anniversario)
Argento
per celebrare le nozze di argento (25º anniversario)
Acquamarina
per celebrare le nozze di perle (30º anniversario)
Blu
per celebrare le nozze di zaffiro (35º anniversario)
Verde
per celebrare le nozze di smeraldo (40º anniversario)
Oro
per celebrare le nozze d'oro (50º anniversario)
Avorio
per celebrare le nozze d'avorio (55º anniversario)
Bianco
per celebrare le nozze di diamante (60º anniversario) o altre ricorrenze di nozze (bomboniera).
nero
per celebrare un lutto.

I confetti e i numeri

Il galateo vuole che i confetti distribuiti dentro i sacchetti siano sempre in numero dispari. Motivo per il quale generalmente in un sacchettino, soprattutto nuziale, si trovano sempre 5 confetti. Questa usanza è data da un pensiero che vede nel numero dispari l'indivisibilità dell'unione.
Secondo tale tradizione, se gli sposi utilizzano un numero pari per la distribuzione dei loro confetti, non è un segno di buon auspicio per la coppia.
Anche i numeri quindi per i confetti hanno un loro significato:
  • 5 confetti simboleggiano fertilità, lunga vita, salute, ricchezza e felicità;
  • 3 confetti simboleggiano la coppia e il figlio;
  • 1 confetto simboleggia l'unicità dell'evento;

Il confetto e la nascita della bomboniera

La parola Bomboniera deriva dal francese "Bombonnière", questo termine indicava, nel XVIII secolo., una preziosa scatoletta che conteneva i tipici dolci dell'epoca, i bon bon appunto. Poiché le varie fonti ci parlano di mandorle ricoperte di miele (gli antichi confetti) riconoscibili nei bon bon, si può dunque affermare che la bomboniera sia appunto nata con lo scopo di contenere i confetti, per cui dalla sua origine fino ai tempi attuali la bomboniera è strettamente legata all'utilizzo del confetto.
Queste preziose scatolette erano molto in uso presso le nobildonne, specialmente nelle corti della Francia, le quali le portavano sempre con sé, esibendole come status symbol del loro rango e per attingere di tanto in tanto qualche dolciume.
Ma prima che diventasse moda, la bomboniera era già in uso in Italia verso il XV secolo, quando per il fidanzamento i futuri sposi e le rispettive famiglie si scambiavano queste scatolette gioiello porta confetti. E per le nozze il fidanzato donava alla futura sposa una "coppa amatoria", ovvero un piatto di ceramica contenente dei confetti come segno di fecondità e prosperità per il loro futuro insieme.
Alla corte del re Sole, Luigi XIV di Francia, si diffuse l'abitudine di donare in segno di ringraziamento bomboniere molto lavorate, prediligendo materiali preziosi come la madreperla, l'avorio dipinto, gli smalti e l'oro.
Ma la sua affermazione avvenne nel 1896, quando per le nozze del principe di Napoli e futuro re d'Italia, Vittorio Emanuele, con la sua regina, Elena del Montenegro, gli invitati portarono come dono delle bomboniere, facendole diventare quindi il dono degli sposi e dando il via alla tradizione moderna che noi oggi conosciamo e che è divenuta popolana e non più ristretta alla sola borghesia o nobiltà.
Per cui, che sia la bomboniera fatta di porcellana, vetro o altro materiale, il suo significato è legato ai confetti, simbolo di buon auspicio per la ricorrenza che si celebra o festeggia.

Il confetto nella letteratura

Sono stati molti i letterati e gli scrittori che hanno dedicato versi al confetto. Tra questi si ricordano Boccaccio, che li nomina in una sua novella e Sonetto di Folgore S. Gimignano (XIV secolo). Poi vi sono Alessandro Manzoni e Goethe, il quale regalò alla sua futura moglie uno scrigno ripieno di confetti.
E ancora poeti e scrittori come Giacomo Leopardi, Giosuè Carducci, Giovanni Verga, Giovanni Pascoli e Gabriele D'Annunzio, hanno citato il confetto come elemento che arricchiva importanti eventi e cerimonie solenni.

Confetti con mandorla di Avola

La mandorla di Avola, prodotta in Sicilia, è la base principale della maggior parte dei confetti, specialmente di quelli italiani. Essa infatti è considerata pregiata e viene scelta per la sua qualità quando si vogliono produrre confetti classici e dal sapore caratteristico.
Delle sue tre cultivar: Pizzuta, Fascionello, Romana, la prima e la seconda sono le più utilizzate nell'industria della confetteria.
La sua particolarità sta nel fatto che la forma appiattita ed ovale consente allo zucchero di modellarsi perfettamente su di essa, dando notevoli risultati finali sul prodotto.
Vi è un metodo per riconoscere subito se il confetto esaminato è stato prodotto con la mandorla di Avola o con la sua principale concorrente moderna, la mandorla californiana, proveniente dalla California:
  • se il confetto è piatto con un sottile strato di zucchero, è stata usata la mandorla di Avola
  • se il confetto è di forma notevolmente tondeggiante, è stata usata un'altra mandorla

Confetti con mandorla Californiana

La mandorla californiana, specialmente in tempi moderni, si è resa protagonista delle tante tipologie odierne di confetti. Essa proviene dagli Stati Uniti, più precisamente dalla soleggiata California. Ma ciò che la differenzia dalla mandorla italiana è la sua forma (più tondeggiante) e il suo sapore.
Inoltre, questa mandorla statunitense viene prodotta con metodi industriali, i quali ne accelerano i tempi di raccolta, favorendo una grande quantità ed una maggiore economia, ma inevitabilmente tolgono qualcosa alla sua qualità.
La mandorla californiana conta quattro principali diverse specie: Mission, Nonpareil, Carmel, California, che a loro volta si suddividono in 32 tipologie differenti per forma, sapore e dimensioni.

Confetti nel mondo

Anche la Spagna ha una rinomata tradizione per l'elaborazione di confetti. Nella penisola iberica si chiamano peladillas e i centri principali di produzione di confetti nel paese sono situati nella città di Casinos, in provincia di Valencia e di Alcoy, in provincia di Alicante. Una ricorrenza importante per l'assaggio dei confetti è la fiera spagnola denominata Feria del Dulce Artesano, Peladillas y Turrones de Casinos, che si svolge appunto nel centro confettiero di Casinos. Qui la produzione artigianale di detto dolce ha inizio nel 1881, con l'arrivo di tale Manuel Jarrín, straniero, e della sua sposa Carmen Murgui, originaria del luogo, che diedero avvio alla produzione locale di confetti. Tra l'altro sembra che proprio gli spagnoli perfezionarono le tecniche di lavorazione del confetto nel XV secolo, mettendo a scaldare lo sciroppo di canna col fine di ottenere una patina bianca e cristallina che poteva avvolgere le mandorle, le nocciole e le bucce d'agrumi.
In Francia invece i confetti si chiamano dragée e vennero introdotti sotto forma di cura medicinale nel 1220 d.C, da uno speziale, ovvero colui che nel medioevo si occupava della preparazione di medicine, proveniente dalla città di Verdun, località francese rinomata per la preparazione di confetti. I francesi, una volta applicato lo zucchero e scoperta la bontà di questo dolce, vi videro virtù curative come il facilitare la digestione e curare la sterilità secondo la teoria umorale. Divenne un dolce tipico della famiglia reale. Nel 1574, il re di Francia, Enrico III, riceve dei confetti in occasione della sua incoronazione, così come Enrico IV di Francia nel 1603. Dalla città francese di Verdun, si dice che si diffusero poi nei Paesi Bassi, Costantinopoli e Russia.
Tra l'altro si suppone che regalare "mandorle" nelle occasioni importanti, fosse una tradizione già in uso circa 3000 anni fa, in località come la Grecia e il Medio Oriente. I greci chiamano i confetti koufeta.

I confetti in Italia

L'Italia ha una grande tradizione in fatto di confetti. La si può definire la "patria" del confetto. Una usanza che continua vivace anche ai nostri giorni. Ad Agnone la tradizione dei confetti è famosa per il tipico confetto riccio (per questo confetto si usa rigorosamente mandorla di Avola) prodotto da due pasticcerie artigianali agnonesi totalmente a conduzione familiare. Vi sono molte fabbriche che producono svariati tipi di confetti; tra queste va menzionata l'antica fabbrica di Andria, in Puglia, la quale produce questi dolci già da tempi antichi, dal 1894, per opera di un certo Nicola Mucci, la cui ditta ha la curiosità di essere stata la fornitrice di confetti per le nozze reali del principe Umberto di Savoia con la principessa Maria José del Belgio. Questo confettiere, a sua volta, apprese l'arte del produrre confetti da una nota, all'epoca, cioccolateria svizzera sita in Napoli, chiamata Caflish. Ad Andria, nello stesso luogo della confetteria, è stato allestito il Museo del confetto, in memoria di Giovanni Mucci, presso il quale si spiega la storia e l'arte di questo antico dolce con utensili, documenti, caramelle e cioccolato. Anche in Abruzzo vi è un museo dedicato ai confetti, intitolato "Museo dell'Arte e della Tecnologia Confettiera Pelino".
Come precedentemente illustrato nella sezione storia, la città abruzzese di Sulmona, in provincia dell'Aquila, vanta la più antica fabbrica di confetti in Italia. La sua produzione confettiera continua anche in tempi più moderni e i suoi dolci sono ormai divenuti famosi e di tradizione, al punto tale che il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali ha inserito i confetti prodotti a Sulmona nella lista dei Prodotti agroalimentari tradizionali italiani, dandoli il marchio P.A.T. Gli italiani esportano i confetti anche in territorio internazionale, poiché il loro prodotto è considerato simbolo di buona qualità.
Infatti è usanza, tra le confetterie italiane, adoperare le proprie mandorle locali: maggiormente coltivate nel sud Italia, come ad esempio quelle pugliesi o siciliane. Va menzionato a questo proposito il particolare che sia nell'antica confetteria di Andria e sia nella rinomata città del confetto, Sulmona, si conoscono e si adoperano, oltre alle mandorle locali, quelle provenienti dalla Sicilia sud-orientale, raccolte tra le province di Siracusa e Ragusa, la sopracitata mandorla di Avola.

Curiosità

I confetti e la sposa
La tradizione vuole che durante la cerimonia nuziale i confetti vengano distribuiti dalla sposa, la quale li dovrà prendere con un grande cucchiaio in argento da un contenitore, anch'esso in argento, che le porgerà lo sposo durante il giro tra i tavoli.

Napoleone e gli archi fatti di confetti
Nel 1806 Napoleone Bonaparte entrò a Verdun, città francese dedita alla confetteria, per l'occasione furono costruiti tre archi di trionfo fatti di confetti bianchi, sotto i quali Bonaparte passò, a simboleggiare l'importanza dell'evento.

Il confetto e la "sciarra"
Il lancio dei confetti all'uscita della chiesa è detto "sciarra" (dal termine siciliano "litigare" "rissa"), poiché i ragazzi accorrevano a raccogliere i confetti facendo confusione.

Il confetto bianco e la purezza
Per i sacramenti, come comunione e matrimonio, si sceglie il confetto di colore bianco, perché questo indica la purezza.

Le due metà della mandorla e l'unione
Il confetto simboleggia l'unione della coppia attraverso le due metà della mandorla tenute insieme dallo zucchero che le avvolge.

Il confetto di Altamura dedicato ad Obama
In provincia di Bari, ad Altamura, una italo-americana, Nina Gardner, figlia di un ambasciatore statunitense che alla fine degli anni '70 lavorò in Italia, preparò nel 2012 confetti a forma di cuore con il volto di Obama per gli italo-americani, in occasione delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Ella stessa nel 2008 portò a Berlino, in occasione di un discorso del presidente, dei confetti da offrirgli come portafortuna.



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Rugelach

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Rugelach al cioccolato


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Piatto di Rugelach



Il Rugelach (Yiddish: רוגעלך) è un dolce tipico della cultura Ebraica di origine Aschenazita.
I Rugelach tradizionali hanno la forma simile a quella di un cornetto, fatto con pasta arrotolata intorno ad un ripieno. Alcune fonti ne attribuiscono la medesima origine viennese, commemorativa della battaglia di Vienna del 1683; tuttavia, tale fatto rimane soltanto una leggenda, in quanto il Rugelach e il Kipferl (o Kipfel), il suo ipotetico predecessore, sono antecedenti all'era moderna, mentre il croissant come lo conosciamo oggi è stato introdotto soltanto nel XIX secolo.


Etimologia

Fedele alle sue origini, il nome viene dallo Yiddish: il finale ach (ך) indica il plurale, mentre la particella el (ל) indica un diminutivo; la radice Rug del nome significa "rigirato" oppure "rivoltato", in riferimento alla forma di questi dolci. La traduzione finale può quindi essere "involtini dolci". Alternativamente, si può intendere la radice come Rugel che in ebraico significa "Reale" (riferito al gusto); tuttavia, tale ipotesi è in contrasto con l'equivalente Yiddish della parola "reale" stessa, ovvero "keniglich".


Ingredienti

I Rugelach sono preparati con una pasta di panna acida (ricetta tradizionale), o, alternativamente di formaggio cremoso (più recente, probabilmente introdotto da Ebrei Americani); esistono anche versioni prive di derivati del latte, tale da far sì che il dolce possa esser consumato insieme o dopo un pasto di carne e rispettare le regole kosher di tradizione Ebraica. Il ripieno può variare: uvetta, cioccolato, nocciole, marzapane, cannella o frutta candita.


Cultura di massa

Parte della tradizione popolare ebraica, si consumano in ogni periodo dell'anno, in ogni giorno della settimana, incluso il Sabato.




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Caffè Pasticceria Piccardo

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Il Caffè Pasticceria Piccardo è un locale storico della città di Imperia, di centenaria tradizione. Si trova nel centro storico dell'abitato di Oneglia, sotto i rinomati portici di piazza Dante, cuore del passeggio. È iscritto all'associazione dei Locali Storici d'Italia e segnalato da numerose guide italiane e straniere per l'eccellenza dei prodotti artigianali, la particolarità degli antichi arredi, che conservano ancora intatto il fascino umbertino degli anni venti, la professionalità del servizio.


Storia

Gli inizi

La fondazione del Caffè Piccardo risale al 1905, quando ancora Imperia non esisteva (fu fondata nel 1923) e Oneglia era una città a sé stante. In arrivo da Voltri, Giacomo Piccardo insieme alla sorella Teresa rileva il Caffè della Posta, in quella che all'epoca si chiamava ancora piazza Maria Teresa, e lo trasforma nell'Ideal Bar, un locale più moderno e funzionale, dall'arredamento ispirato ai più ambiziosi canoni di una grande città come Genova.
Nel 1910 viene attuata un'altra ristrutturazione che muta l'Ideal in Splendid Bar, una struttura ancora più elegante e avveniristica, esaltata anche da una molto favorevole recensione della Cronaca Onegliese del Giornale Ligure del 1º ottobre. In breve, lo Splendid Bar viene affiancato dalla Premiata Pasticceria Genovese, attività gestita proprio dalla sorella di Giacomo, Teresa.


Gli anni Venti

Negli anni venti, i due locali vengono accorpati, all'angolo di piazza Dante con la centralissima via Bonfante, in una unica lussuosa struttura, destinata a entrare nella storia di Imperia e non solo. In quella che ormai è diventata la capitale dell'olio di oliva, i signori della città si incontrano giorno e notte per stringere patti e formare alleanze, facendo affari più che in ditta. Il Caffè Piccardo Pasticceria acquista la fama di locale di élite, in cui si entra solo se laureati, mentre le torte e gli altri i prodotti del laboratorio di pasticceria sono contesi per i rinfreschi più esclusivi della Riviera.


Il dopoguerra

Dopo la seconda guerra mondiale, la gestione del Caffè passa nelle mani del figlio di Giacomo, Ambrogio, che eredita un locale con già mezzo secolo di storia alle spalle. Oltre a bere caffè e mangiare brioche, da Piccardo gli imperiesi seguono i piccoli e grandi eventi del periodo, dalle peripezie calcistiche della squadra locale all'arrivo della televisione e delle prime puntate di Lascia o raddoppia.
Negli anni del boom economico, la Riviera si riempie di turisti e la popolarità di Piccardo cresce a vista d'occhio, sia per i dolci favolosi, sia per i tanti personaggi annoverati tra la sua clientela a cinque stelle. L'episodio forse più famoso della vasta aneddotica del locale – riportato da vari siti e giornali – è una memorabile incursione del ciclista Fausto Coppi che, in testa alla Milano-Sanremo con oltre dieci minuti di vantaggio, smonta dalla bicicletta per prendersi un caffè da Piccardo e poi riparte velocissimo verso la vittoria. Tra gli altri, si vedono al bancone di Piccardo, anche il senatore (e poi Presidente della Repubblica) Sandro Pertini, lo scrittore Italo Calvino, il pubblicitario Armando Testa, il compositore Luciano Berio, l'artista Georg Baselitz.


La ristrutturazione degli anni 70

Nel 1973, l'improvvisa scomparsa di Ambrogio, nel frattempo diventato Cavaliere del Lavoro e fondatore della Unione Commercianti a Imperia, costringe le figlie Carla e Maria Teresa a prenderne il posto. Le due sorelle danno subito vita a una profonda ristrutturazione del locale, che viene ingrandito e rinnovato, senza però rinunciare al suo stile classico e inconfondibile.
Nel 1987, al Caffè Pasticceria Piccardo, si affianca, negli spazi della sala da tè, il Piccardilly, un ristorante espresso nato per soddisfare tutte le esigenze di una clientela ormai interclassista. Sotto le scritte dorate che sulle antiche facciate di mogano recitano Pasticceria, Liquoreria, Confetteria, Gelateria, le due sorelle Carla e Maria Teresa portano avanti con orgoglio e impegno l'attività iniziata dal nonno Giacomo e proseguita dal padre Ambrogio. Le segnalazioni e gli elogi ricevuti dalle guide non si contano, così come i complimenti dei turisti italiani e stranieri, che hanno ormai fatto di Piccardo una tappa fissa delle vacanze in Riviera.


Il recupero storico del 2003

Nel 2003, un nuovo, ambizioso lavoro di ristrutturazione, con un elaborato intervento di recupero storico, accorpa i locali contigui della pasticceria e del ristorante in una unica, più funzionale struttura. L'anno successivo, in vista dell'imminente centenario, il Caffè Pasticceria Piccardo viene ammesso all'associazione dei Locali Storici d'Italia - unico bar in tutta la provincia di Imperia - e il sindaco di Imperia consegna alle sorelle Carla e Maria Teresa una targa di merito, unica nel suo genere, per l'attività svolta a favore della promozione dell'offerta ricettiva cittadina.
Oltre che sulle guide specializzate, Piccardo inizia a uscire anche su riviste generaliste come GQ, Dove, Donna Moderna, Specchio de La Stampa. Il Secolo XIX e le edizioni liguri de Il Giornale e La Stampa enfatizzano ogni successo raggiunto dal locale, riprendendo in una occasione anche le parole dell'assessore regionale alla cultura Fabio Morchio, che nel 2007 ha definito i locali storici della Liguria «un formidabile patrimonio culturale».


Locale

Pur essendo stato sottoposto nel corso dei decenni a ristrutturazioni e traslochi di considerevole portata, il Caffè Pasticceria Piccardo di Imperia ha sempre cercato di mantenere intatto il caratteristico stile umbertino, unendo innovazione e tradizione in allestimenti di grande impatto visivo, ma allo stesso tempo anche molto funzionali.
Dopo l'ultimo trasloco del 2003, con l'intervento di recupero storico degli ebanisti Alfonso e Giorgio Maligno, il Caffè Pasticceria Piccardo si presenta al numero 2 di piazza Dante, sotto i portici di Oneglia, con tre facciate in mogano antico, decorate con specchi, colonne e capitelli finemente intarsiati, e su cui si stagliano le grandi scritte dorate che insieme al nome del locale, ne declinano le principali offerte: Pasticceria, Liquoreria, Confetteria.
Dentro, una ampia sala di circa 150 metri quadrati è illuminata da neon, lampade e plafoniere in vetro di Murano. Al centro, intorno ai pilastri che sorreggono il soffitto a volta, troneggia un mastodontico bancone a isola di marmo verde, con le tradizionali decorazioni in stile umbertino del locale che si alternano a pannelli in plexiglas retro illuminati, contenenti le foto in bianco e nero che raccontano la storia della famiglia Piccardo.
Sulla destra si stagliano l'ampia vetrina della pasticceria e quella refrigerata della gelateria. A sinistra, nello spazio della sala da tè, fa bella mostra di sé il blasone di famiglia, montato su una parete su cui è stampata una grande riproduzione retro illuminata della fotografia della inaugurazione dell'Ideal Bar, il primo locale aperto a Oneglia dai Piccardo nel 1905.
Dietro il bancone c'è lo spazio per il lunch, con l'angolo cottura dove vengono preparati i piatti espressi. Il piano di sopra della struttura ospita invece il laboratorio della pasticceria, quello della gelateria, la cucina del bar e del ristorante, l'ufficio e il magazzino. Nel sottosuolo si trovano le cantine, incredibilmente vaste anche per un locale così grande, dove tra l'altro sono tenuti molti vecchi macchinari.


Citazioni

Nel corso della sua centenaria storia, il Caffè Pasticceria Piccardo è stato citato e utilizzato come scenario da moltissime opere di fiction, come romanzi, racconti, film, telefilm italiani e stranieri. Il caso più curioso è forse quello del romanzo di fantascienza Il codice dell'Apocalisse di Andrea Carlo Cappi e Alfredo Castelli (pubblicato nel 2001 sul trimestrale da libreria M-Rivista del Mistero e poi nel 2007 ristampato in volume da Alacran Edizioni), in cui il popolare personaggio dei fumetti della Sergio Bonelli Editore Martin Mystère raggiunge insieme all'assistente Java il Caffè Piccardo a Imperia mentre indaga su una misteriosa setta satanica. Tra i tavolini del rinomato locale, il detective dell'impossibile incontra lo scrittore e giornalista Marco Vallarino, anche lui studioso dell'occulto, che gli permetterà di proseguire l'indagine accompagnandolo nella villa, sulle alture di Alassio, dell'oscuro rocker Asta Roth.

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Challah

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Challah (חלה plurale Challot) è un pane tradizionale ebraico a forma di treccia mangiato in occasione dello Shabbat (e di altre feste, tranne Pesach). Lo Shabbat è il giorno di festa degli ebrei.

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Caffè Romano

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«... Ecco il tavolino preparato per lei! Cassata, fragola, schiumone: abbiamo gelati d’ogni genere stasera, signor marchese!»
(Le sere d’estate in piazza e al bar, era una festa» di Pier Maria Rosso di San Secondo)






Il caffè Romano o bar Romano o Gran Caffè Romano è stato uno storico caffè della città di Caltanissetta, di proprietà del cavaliere Raimondo Romano detto Ramunnu in siciliano.


Storia

Esso è stato un luogo simbolo della città nissena, insieme alla libreria Sciascia. Posto di fronte il Palazzo del Carmine storica sede del Comune nisseno; nei suoi tavolini si sono seduti Leonardo Sciascia, Vitaliano Brancati, Pier Maria Rosso di San Secondo, Pompeo Colajanni, Giuseppe Granata, Giuseppe Alessi, il preside Luigi Monaco e tanti altri insieme all'intelligentia nissena tutta.
Ha operato ininterrottamente dal 1923 fino alla sua chiusura avvenuta nell'aprile del 2014. Nel settembre del 2000, dopo qualche tempo la morte di Romano, aveva cambiato gestione.
Conosciuto per i suoi dolci tipici della tradizione nissena come il rollò, il cannolo e tanti altri oppure per i raffiolini o per la qualità dei gelati duri e dei torroni.



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Caffè Tettamanzi

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Il Caffè Tettamanzi (o Bar Majore), è un locale storico di Nuoro fondato nel 1875 e situato al corso Giuseppe Garibaldi 71.

Storia

Questo caffè chiamato anticamente Bar Majore, veniva frequentato quotidianamente da Sebastiano Satta e dagli altri intellettuali dell'Atene Sarda. All'interno il soffitto è impreziosito dagli stucchi originali opera di Tettamanzi, fondatore del locale; ebanista piemontese, venne a Nuoro per lavorare al coro ligneo dell'erigenda cattedrale. Le pareti del locale conservano ancora alcuni specchi d'epoca.
L'interno di questo caffè storico ricorda quello descritto da Salvatore Satta nel suo romanzo Il giorno del giudizio: «Il Corso si stendeva dalla piazza di San Giovanni, al Ponte di Ferro si affacciavano le case di pretesa, quella di Tettamanzi, altro continentale, ma di cui non si serbava ricordo che nel nome del caffè, al piano terreno. Era un caffè grazioso, con piccole salette orlate di divani rossi, come, salvando il rispetto, i caffè di Venezia».
Il Caffè Tettamanzi si trova al piano terra, di un grande edificio che si affaccia sul Corso Garibaldi, nel centro di Nuoro e costituiva il luogo di ritrovo dei nuoresi del primo novecento. Ancora oggi è punto di ritrovo di nuoresi e turisti.
Al giorno d'oggi nel bar vengono allestite anche delle mostre fotografiche e/o artistiche.

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Kalač

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Il kalač in russo: калач è un tipo di pane bianco russo fatto con farina di frumento e modellato a forma di maniglia.


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Caffè Pedrocchi

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Il Caffè Pedrocchi è un caffè storico di fama internazionale, situato nel pieno centro di Padova, in via VIII Febbraio nº 15. Aperto giorno e notte dal 1916 e perciò noto anche come il "Caffè senza porte", per oltre un secolo è stato un prestigioso punto d'incontro frequentato da intellettuali, studenti, accademici e uomini politici. L'8 febbraio 1848, il ferimento al suo interno di uno studente universitario diede il via ad alcuni dei moti caratterizzanti il Risorgimento italiano e che sono ancora oggi ricordati nell'inno ufficiale universitario, Di canti di gioia.


Storia




(FR)
« C'est à Padoue que j'ai commencé à voir la vie à la vénitienne, les femmes dans les cafés. L'excellent restaurateur Pedrocchi, le meilleur d'Italie. »
(IT)
« È a Padova che ho cominciato a vedere la vita alla maniera veneziana, con le donne sedute nei caffè. L'eccellente ristoratore Pedrocchi, il migliore d'Italia. »
(Stendhal)



Tra Settecento e Ottocento il consumo del caffè si è diffuso anche in Italia e si è andata così affermando la tradizione del caffè come circolo borghese e come punto d'incontro aperto, in contrapposizione alla dimensione privata dei salotti nobili. A Padova la presenza aggiuntiva di oltre tremila persone tra studenti, commercianti e militari fece sì che, più che in altri centri cittadini, si sviluppasse questo tipo di attività.
In questo contesto, nel 1772 il bergamasco Francesco Pedrocchi apre una fortunata "bottega del caffè" in un punto strategico di Padova, a poca distanza dall'Università, dal Municipio, dai mercati, dal teatro e dalla piazza dei Noli (oggi Piazza Garibaldi), da cui partivano diligenze per le città vicine, e dall'Ufficio delle Poste (oggi sede di una banca).
Il figlio Antonio, ereditata la fiorente attività paterna nel 1800, dimostra subito capacità imprenditoriali decidendo di investire i guadagni nell'acquisto dei locali contigui al suo e, nel giro di circa 20 anni, si ritrova proprietario dell'intero isolato, un'area pressappoco triangolare delimitata a est dalla via della Garzeria (oggi via VIII Febbraio), a ovest da via della Pescheria Vecchia (oggi vicolo Pedrocchi) e a nord dall'Oratorio di San Giobbe (oggi piazzetta Pedrocchi).
Il 16 agosto 1826 Antonio Pedrocchi presenta alle autorità comunali il progetto per la costruzione di uno stabilimento, comprendente locali destinati alla torrefazione, alla preparazione del caffè, alla "conserva del ghiaccio" e alla mescita delle bevande. Prima di questo cantiere, Pedrocchi aveva incaricato un altro tecnico, Giuseppe Bisacco, di eseguire i lavori di demolizione dell'intero isolato e di costruire un edificio ma, insoddisfatto del risultato, aveva richiesto a Giuseppe Jappelli, ingegnere e architetto già di fama europea e esponente di spicco della borghesia cittadina che frequentava il caffè, di riprogettare il complesso dandogli un'impronta elegante e unica.
Nonostante le difficoltà determinate dal dover disegnare su una pianta irregolare e dal dover coordinare facciate spazialmente diverse, Jappelli fu in grado di progettare un edificio eclettico che trova la sua unità nell'impianto di stile neoclassico. L'illustre veneziano volle trasferire in architettura la sua visione laica e illuminista della società, creando quello che poi diverrà uno degli edifici-simbolo della città di Padova.
Il piano terreno fu ultimato nel 1831, mentre nel 1839 venne realizzato il corpo aggiunto in stile neogotico denominato "Pedrocchino", destinato ad accogliere l'offelleria (pasticceria). In occasione del "IV Congresso degli scienziati italiani" (evento dal titolo significativo, visto che Padova si trovava ancora sotto la dominazione asburgica), nel 1842 si inaugurarono le sale del piano superiore che, secondo il gusto storicizzante dell'epoca, erano state decorate in stili diversi, creando un singolare percorso attraverso le civiltà dell'uomo.
Per la loro realizzazione Jappelli si avvalse della collaborazione dell'ingegnere veronese Bartolomeo Franceschini e di numerosi decoratori, tra cui il romano Giuseppe Petrelli, al quale si deve la fusione delle balaustre delle terrazze con i grifi, i bellunesi Giovanni De Min, ideatore della sala greca, Ippolito Caffi della sala romana e Pietro Paoletti della sala pompeiana (o "ercolana"), il padovano Vincenzo Gazzotto, pittore del dipinto sul soffitto della sala rinascimentale.
Le sale del piano superiore erano destinate a incontri, convegni, feste e spettacoli e il loro utilizzo veniva concesso ad associazioni pubbliche e private che, a vario titolo, potevano organizzare eventi.
Antonio Pedrocchi si spense il 22 gennaio 1852. Animato dalla volontà di lasciare la gestione del suo caffè a una persona di fiducia, aveva adottato Domenico Cappellato, il figlio di un suo garzone, che alla morte del padre putativo si impegnò nel dare continuità all'impresa ricevuta in eredità, pur cedendo in gestione le varie sezioni dello stabilimento.
Alla morte di Cappellato, avvenuta nel 1891, il caffè passa al Comune di Padova. In un testamento stilato alcuni mesi prima, Cappellato lasciava infatti lo stabilimento ai suoi concittadini:
« Faccio obbligo solenne e imperituro al Comune di Padova di conservare in perpetuo, oltre la proprietà, l'uso dello Stabilimento come trovasi attualmente, cercando di promuovere e sviluppare tutti quei miglioramenti che verranno portati dal progresso dei tempi mettendolo al livello di questi e nulla tralasciando onde nel suo genere possa mantenere il primato in Italia »
(Dal testamento di Domenico Cappellato Pedrocchi



La decadenza

Un inevitabile degrado dovuto alle difficoltà determinate dalla grande guerra caratterizzerà il caffè negli anni tra il 1915 e il 1924. In quest'ultima data hanno inizio i lavori di restauro del "Pedrocchino", che si protrarranno fino al 1927. Negli anni successivi va purtroppo dispersa gran parte degli arredi originari disegnati dallo stesso Jappelli, che verranno sostituiti via via nell'epoca fascista.
Dopo la seconda guerra mondiale, con il progetto dell'architetto Angelo Pisani che si impone contro quello di Carlo Scarpa, mai preso in considerazione dall'amministrazione comunale, si avvia un nuovo restauro che ridefinisce i vani affacciati sul vicolo posteriore, trasforma lo stesso vicolo in una galleria coperta da vetrocemento e ricava alcuni negozi, un posto telefonico pubblico e una fontana in bronzo sventrando parte dell'Offelleria, del Ristoratore e demolendo la Sala del Biliardo.
Nonostante le proteste di molti cittadini e le perplessità della Soprintendenza ai monumenti, viene sostituito lo storico bancone in marmo con banchi di foggia moderna, viene installata una fontana luminosa al neon e le carte geografiche della sala centrale, caratterizzate dalla rappresentazione rovesciata delle terre emerse (curiosamente il sud viene rappresentato in alto) vengono sostituite da specchi.
Per buona parte degli anni ottanta e novanta il Pedrocchi rimane chiuso per difficoltà tra i titolari della gestione e il Comune; nel 1994 viene finalmente deciso il recupero dei locali e all'architetto Umberto Riva e ai collaboratori M. Macchietto, P. Bovini e M. Manfredi viene affidato il compito di rimediare ai danni provocati dal devastante restauro Pisani degli anni cinquanta e di riportare all'antico splendore i locali dello storico caffè.
Dopo l'esecuzione del primo stralcio di lavori, il 22 dicembre 1998 il caffè viene restituito ai cittadini di Padova.


Architettura

Il Caffè Pedrocchi si configura come un edificio di pianta approssimativamente triangolare, paragonata a un clavicembalo. La facciata principale si presenta con un alto basamento in bugnato liscio, guarda verso est e si sviluppa lungo la via VIII Febbraio; su di essa si affacciano le tre sale principali del piano terra: la Sala Bianca, la Sala Rossa e la Sala Verde, così chiamate dal colore delle tappezzerie realizzate dopo l'Unità d'Italia nel 1861.
La Sala Rossa è quella centrale, divisa in tre spazi, è la più grande e vede attualmente ripristinato il bancone scanalato di marmo così come progettato da Jappelli. La Sala Verde, caratterizzata da un grande specchio posto sopra al camino, era per tradizione destinata a chi voleva accomodarsi e leggere i quotidiani senza obbligo di consumare. È stata pertanto ritrovo preferito degli studenti squattrinati e a Padova si fa risalire a questa consuetudine il modo di dire essere al verde. La Sala Bianca, si affaccia verso il Bo, conserva in una parete il foro di un proiettile sparato nel 1848 dai soldati austro-ungarici contro gli studenti in rivolta contro la dominazione asburgica. Inoltre, è anche nota come ambientazione scelta da Stendhal per il suo romanzo "La certosa di Parma". Completa il piano terra la Sala Ottagona o della Borsa, dall'arredo non troppo raffinato, destinata in origine alle contrattazioni commerciali.
A sud il caffè termina con una loggia sostenuta da colonne doriche e affiancata dal corpo neogotico del cosiddetto "Pedrocchino". Quest'ultimo, è costituito da una torretta a base ottagonale che rappresenta una fonte di luce, grazie alle finestre disposte su ogni lato. Inoltre, al suo interno è presente una scala a chiocciola. Due logge nello stesso stile si trovano dislocate sul lato nord, e davanti a queste si trovano quattro leoni in pietra scolpiti dal Petrelli, che imitano quelli in basalto che ornano la cordonata del Campidoglio a Roma.
Tra le due logge del lato nord si trova una terrazza delimitata da colonne corinzie.
Il piano superiore o "piano nobile" è articolato in dieci sale, ciascuna decorata con uno stile diverso:
  1. Etrusca
  2. Greca
  3. Romana: caratterizzata da una pianta circolare;
  4. Stanzino barocco
  5. Rinascimentale
  6. Gotica-medievale
  7. Ercolana o pompeiana: tipici sono i decori che ricordano le ville romane;
  8. Rossini: è la stanza più grande, infatti riproduce la stessa planimetria della sala Rossa del piano terra. In questa stanza, dedicata a Rossini e Napoleone, possiamo osservare degli stucchi a tema musicale che ne rappresentano simbolicamente la destinazione d'uso.
  9. Moresca: molto piccola;
  10. Egizia: ai quattro angoli della stanza troviamo dei piedistalli che sorreggono una finta trabeazione, e diversi attributi che ci rimandano alla cultura egiziana.
La chiave di lettura di questo apparato decorativo può essere quella romantica di rivisitazione nostalgica degli stili del passato. Non è esclusa però una chiave esoterica o massonica (Jappelli era massone). I simboli egizi precedono la decifrazione della scrittura geroglifica da parte di Champollion e sono piuttosto un omaggio al grande esploratore padovano Giovanni Battista Belzoni, che aveva scoperto numerosi monumenti egizi e di cui Jappelli aveva conoscenza diretta.
Presso il piano nobile dello Stabilimento si trova il Museo del Risorgimento e dell'età contemporanea, dove sono conservati tra gli altri i ritratti del fondatore Antonio Pedrocchi e del suo successore Domenico Cappellato Pedrocchi, entrambi opera di Achille Astolfi.



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Ghibanizza

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«Se avessi avuto uova e burro, mia madre avrebbe saputo come preparare la ghibanizza.»
(Antico proverbio serbo)



La ghibanizza o gibanica (in serbo cirillico Гибаница, pronuncia: [ˈɡibanit͡sa]) è un dolce di pasticceria tipico dei Balcani ed in particolare della Serbia. Viene preparato generalmente con formaggio fresco e uova e le ricette possono variare dal dolce al salato e da semplici fino ad elaborate torte multi-strato tradizionali per le festività.
Il termine deriva dal verbo "gibati" (ги́бати) della lingua serba, che significa "piegare, muoversi". Il dolce viene citato nel dizionario serbo del 1818 del linguista serbo Vuk Stefanović Karadžić.
Il dolce viene servito per colazione insieme al kefir o yogurt bianco. Oltre che nei Balcani, la ghibanizza può essere gustata nei ristoranti di cucina serba nel mondo.
La ghibanizza è uno dei dolci più popolari e tipici dei Balcani, e viene servito sia nelle occasioni festive, sia in famiglia. In Serbia, la torta viene consumata come piatto tradizionale di Natale, Pasqua e Slava (patrono di famiglia).


Etimologia

Nel vocabolario dell'Accademia Jugoslava, così come nel dizionario etimologico delle lingue slave, la parola gibanica viene fatta derivare dal verbo della lingua serba gíbati/ги́бати, che significa "piegare, muoversi". Esistono inoltre altre parole derivate in serbo-croato, come gibaničar/гибаничар (colui che prepara/ama mangiare la ghibanizza e, in senso dispregiativo, scroccone).


Storia

La parola gibanica fu utilizzata nei Balcani nel XVII secolo come cognome o nomignolo. La parola serba gìbanica/гѝбаница venne inclusa nel dizionario serbo, scritto nel 1818 dal filologo e linguista serbo Vuk Stefanović Karadžić, il quale viaggiò a lungo nei Balcani e annotò fatti interessanti su tradizioni e costumi serbi. Riguardo alla gibanica, spiegò che "è una torta con formaggio molle tra pasta sfoglia mischiata con kaymak, latte e uova".
Durante la seconda guerra mondiale, mentre si nascondevano dalle forze della Germania nazista nelle foreste della Jugoslavia, i Cetnici serbi crearono la cosiddetta Gibanica cetnica, con gli ingredienti ricevuti dai contadini: quando il comandante dei partigiani jugoslavi, Josip Broz Tito, e il leader dei cetnici Draža Mihailović si incontrarono a Ravna Gora nel 1941, venne servita una gibanica e patate cotte nel sač insieme a kaymak preparate appositamente per loro.
Nel 2007, la Gibanica è divenuta un marchio ufficiale di un prodotto esportato della Serbia: alla fiera di Belgrado l'industria alimentare "Alexandria" presentò una gibanica semi-cotta e congelata per il mercato internazionale.


Preparazione

La ricetta originale della gibanica include la tradizionale pasta fillo casalinga e formaggio molle fresco di mucca. Il formaggio può essere feta o sirene. La torta viene preparata tradizionalmente come una "gužvara" (torta ripiena), in modo che la pasta fillo nel mezzo viene riempita e mescolata. Oltre al formaggio molle, l'impasto contiene uova, latte, kaymak, strutto, sale e acqua. Inoltre, il ripieno può contenere spinaci, carne, ortiche, patate e cipolla. Per velocizzare la preparazione, può essere utilizzata la pasta fillo già prodotta, unitamente a olio di semi di girasole o olio di oliva al posto dello strutto.
La ghibanizza è un dolce a forma rotonda con crosta croccante bruno-dorata. L'interno è a più strati, e comprende una pasta sfoglia con piccoli pezzi di formaggio tra ogni strato. La ghibanizza può essere servita calda al mattino ed è generalmente accompagnata da yogurt.



Varianti

Molte varianti di ghibanizza e relative ricette sono diffuse nei Balcani; differenti ghibanizze sono parte della cucina nazionale di Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Macedonia, Serbia, Slovenia, Italia, Grecia e Bulgaria (dove viene chiamata Banitsa).
Dalla ricetta di base, sono derivate molte specialità locali. La Prekmurska gibanica, ad esempio, è una torta molti-strato della provincia dell'Oltremura in Slovenia, ed è servita come dessert nelle festività. La Međimurska gibanica, della vicina regione del Međimurje in Croazia, è molto simile, ma più semplice e meno "formale", poiché composta da soli quattro strati ripieni di formaggio quark, semi di papavero, mele e noci). La Prleška gibanica è la variante preparata nella regione della Prlekija sulla sponda occidentale del fiume Mura.
Oltre ai Balcani, il concetto base della ghibanizza (relativo ad una torta contenente formaggio e altri ripieni) è presente anche in Anatolia e nei paesi del mediterraneo orientale. Ad esempio la Shabiyat (Sh'abiyat, Shaabiyat) è una ricetta della cucina di Siria e Libano. La ghibanizza assomiglia inoltre ad una specie di strudel di formaggio, con il quale condivide probabilmente un antenato comune nelle ricette della regione e nelle antiche cucine degli imperi bizantino ed ottomano.


Nella cultura popolare

La ghibanizza è uno dei dolci più popolari e riconoscibili della cucina balcanica, servita sia nelle occasioni festive che come spuntino casalingo.
La più grande ghibanizza mai realizzata fu preparata a Mionica nel 2007: pesava oltre 1.000 kg e per la sua realizzazione sono stati necessari 330 kg di pasta fillo, 330 kg di formaggio, 3.300 uova, 30 litri di olio, 110 litri di acqua minerale, 50 kg di strutto e 500 confezioni di lievito in polvere.
In Serbia, così come nei paesi vicini, esistono sagre dedicate alla pietanza. Uno di essi è il Festival della ghibanizza (chiamato anche "Giorni della Banitsa") organizzato annualmente a Bela Palanka dal 2005.

Informazioni nutrizionali

100 grammi di gibanica contengono mediamente: 1.255 kJ (300 kcal), 15,4 g di carboidrati, 22,2 g di grassi e 9,9 g di proteine.




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Caffè Baratti & Milano

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Il Caffè Baratti & Milano è uno dei locali storici più antichi e prestigiosi di Torino, situato nella centralissima piazza Castello e adiacente alla Galleria Subalpina fin dal 1875.


Cenni storici

Il celebre Caffè Baratti & Milano deve il suo nome a due confettieri canavesani: Ferdinando Baratti e Edoardo Milano. Trasferitisi a Torino nel 1858, essi aprirono un laboratorio di confetteria e pasticceria in via Dora Grossa 43 (l'attuale via Garibaldi), destinato a divenire uno dei marchi più rinomati dell'industria dolciaria piemontese e italiana. Tra l'altro fu Ferdinando Baratti che creò il famoso cremino divenuto poi con il gianduiotto uno dei grandi classici fra i cioccolatini italiani.
Dato il crescente successo, nel 1875 la Baratti & Milano decise di trasferirsi in centro, presso i locali nella nuovissima Galleria Subalpina, appena inaugurata. Il locale divenne presto ambìto luogo di ritrovo della borghesia e di intellettuali come D'Azeglio, Giolitti ed Einaudi tanto che il successo crebbe a tal punto da ricevere la qualifica di "Azienda fornitrice ufficiale della Real Casa".
Il locale come appare attualmente è frutto del primo rifacimento a seguito dell'ampliamento del 1909, realizzato su progetto di Giulio Casanova e, per quanto riguarda gli interni, dello scultore Edoardo Rubino. Il risultato è un elegantissimo ambiente caratterizzato da un ampio uso di specchi, marmi, bronzi, dorature e stucchi che conferiscono al locale un ricco profilo architettonico e artistico, che valsero al Caffè Baratti & Milano varie citazioni in ambito letterario e ricercata ambientazione di scene cinematografiche.
Nel 1948 il locale riapre i battenti, dopo un attento restauro a seguito dei danni dei bombardamenti della guerra e nel 1985 il Ministero dei beni culturali e ambientali pone il vincolo di tutela sul locale e sugli arredi.
Dopo alcuni riassetti societari della Baratti & Milano occorsi con il tempo, il marchio delle celebri caramelle Barattine e il locale passano di proprietà prima al gruppo dolciario veneto Toulà e, nel 2003, al gruppo Novi-Elah-Dufour, che ha finanziato anche l'ultimo restauro conservativo conclusosi nel 2004.



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Yakgwa

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Lo yakgwa (약과, 藥菓) è un piatto tradizionale coreano. In precedenza era considerato un dessert e, più di recente, un prodotto di pasticceria perché ha sapore dolce e forma di biscotto. Esso è composto da miele, olio di sesamo e farina.


Origini

L'origine dello yakgwa non è chiara visto che esso ha avuto numerosi nomi differenti. Comunque sembra che i coreani iniziarono a mangiarlo durante l'era Shilla. Nella dinastia Goryeo lo yakgwa era noto anche in Cina col nome Goryeo Mandu. È dalla dinastia Joseon che ha preso il nome yakgwa. Il nome letteralmente significa il dolce medicinale; ciò per via degli ingredienti con cui è fatto; infatti durante l'era della dinastia Joseon il miele era considerato una medicina.

Ingredienti

Lo yakgwa tradizionalmente è preparato con miele, olio di sesamo e farina; di recente alcune industrie aggiungono altri ingredienti per migliorare il sapore dei biscotti.

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