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Biscotto della Salute: la fragranza antica che ha nutrito marinai e contadini


C’è un suono che, nelle cucine liguri e piemontesi, si ripete da secoli: il crepitio lieve del biscotto della salute che si spezza tra le dita. È una fragranza asciutta, pulita, che accompagna le colazioni e le merende da generazioni. Questo dolce, a metà tra una fetta biscottata e un pane arricchito, ha origini antiche legate ai viaggi per mare, quando la necessità di conservare gli alimenti per lunghi periodi spinse i fornai a ideare prodotti asciutti, nutrienti e resistenti all’umidità.

Ancora oggi, il biscotto della salute non è soltanto un alimento: è un frammento di storia, un ricordo di famiglie radunate attorno al tavolo, di tazze di latte fumante e di merende invernali in cui il burro e lo zucchero si sposano con il profumo di pane tostato.

Le radici di questo prodotto affondano nel XVI secolo, quando nelle cucine di Genova si preparavano pani destinati a lunghi viaggi marittimi. I marinai necessitavano di alimenti che potessero resistere alle settimane trascorse in mare senza deteriorarsi. Nacquero così le gallette, versioni essenziali e prive di grassi, ma anche pani più ricchi, da cui discendono il biscotto della salute e il suo cugino aromatizzato, il biscotto del Lagaccio.

La ricetta originaria prevedeva una lenta lievitazione naturale, seguita da una cottura in pagnotte. Dopo un periodo di stagionatura, i pani venivano affettati e tostati, così da ottenere un prodotto friabile e dal tasso di umidità bassissimo — circa il 3% — condizione perfetta per impedirne la muffa.

Nel tempo, la versione ligure e piemontese si è arricchita di burro, latte e zucchero, rendendo il biscotto non solo durevole ma anche gradevole al palato. Il termine “salute”, fino a tempi recenti, indicava proprio questa ricchezza nutritiva, e non un’idea di leggerezza dietetica.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il biscotto della salute divenne prodotto industriale grazie ad aziende come la “Biscotti Wamar Marchisio & C” di Torino. Dopo il declino di questa realtà, la tradizione è stata raccolta da Monviso Group, che ancora oggi lo produce.

Ricetta tradizionale del Biscotto della Salute

Ingredienti (per circa 40 biscotti)

  • Farina 00: 1 kg

  • Zucchero semolato: 300 g

  • Burro: 150 g

  • Latte intero: 500 ml

  • Uova: 3 grandi

  • Lievito di birra fresco: 25 g

  • Sale: 10 g

Preparazione passo passo

  1. Attivare il lievito
    Sciogliere il lievito di birra in 100 ml di latte tiepido con un cucchiaino di zucchero. Lasciare riposare per 10-15 minuti finché in superficie non si forma una leggera schiuma.

  2. Impastare
    In una grande ciotola, versare la farina, lo zucchero e il sale. Aggiungere le uova, il burro morbido a pezzetti e il lievito attivato. Iniziare a impastare, versando gradualmente il resto del latte. Lavorare fino a ottenere un impasto morbido e liscio.

  3. Prima lievitazione
    Formare una palla e trasferirla in una ciotola leggermente unta. Coprire con un panno e lasciare lievitare in un luogo tiepido per circa 2-3 ore, o fino al raddoppio del volume.

  4. Formare i pani
    Dividere l’impasto in due o tre parti e dare loro la forma di filoni leggermente appiattiti. Disporli su una teglia rivestita di carta forno, distanziati tra loro.

  5. Seconda lievitazione
    Coprire i filoni con un panno e lasciarli riposare per un’altra ora.

  6. Prima cottura
    Cuocere in forno statico preriscaldato a 180°C per 30-35 minuti, fino a doratura. Lasciare raffreddare completamente.

  7. Affettare
    Una volta freddi, tagliare i filoni in fette spesse circa 1,5 cm, utilizzando un coltello seghettato per non schiacciare la mollica.

  8. Tostatura
    Disporre le fette su una teglia e tostarle in forno a 160°C per circa 15-20 minuti, girandole a metà cottura. Devono risultare asciutte e croccanti.

Consigli per una resa perfetta

  • Non abbiate fretta: la doppia lievitazione è essenziale per la fragranza.

  • La tostatura deve essere graduale per evitare che il biscotto scurisca troppo.

  • Per un aroma più intenso, si può aggiungere un cucchiaino di miele all’impasto.

Il biscotto della salute è estremamente versatile. A colazione si sposa bene con il latte caldo o il caffè, ma anche con il tè nero dal gusto robusto. Nelle merende invernali è perfetto con marmellata di albicocche o confettura di fichi, mentre nelle giornate di festa trova un compagno d’eccezione in un bicchiere di Moscato d’Asti o di Vin Santo toscano, in cui può essere brevemente inzuppato.

La sua natura asciutta e neutra lo rende anche un ottimo alleato per preparazioni salate: tostato leggermente in forno e spalmato di paté o formaggi cremosi, diventa un elegante antipasto.

Ogni morso del biscotto della salute è un piccolo viaggio nel tempo. Racconta di forni a legna, di mani esperte che modellano l’impasto, di famiglie che tramandano ricette di generazione in generazione. È un dolce che non ha bisogno di eccessi per farsi amare: la sua forza sta nella semplicità, nella cura della lavorazione e nel rispetto di un rituale antico.

Oggi, in un mondo dominato dalla velocità e dagli alimenti pronti, concedersi una fetta di biscotto della salute significa anche rallentare, apprezzare il ritmo della lievitazione e il profumo che si sprigiona dalla tostatura. È un gesto che riporta alle origini, quando la cucina era soprattutto pazienza e attenzione.

E se, come accade spesso, un prodotto resiste nei secoli, è perché custodisce qualcosa di più di un semplice gusto: conserva un legame profondo con la vita quotidiana, con le necessità e le gioie di chi lo ha preparato e condiviso.


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Biscotto di Mezz’Agosto: Tradizione Toscana tra Sapori e Storia

 

Il Biscotto di Mezz’Agosto è un dolce tradizionale della Toscana, strettamente legato alle celebrazioni di Ferragosto e alle antiche pratiche agricole della regione. Questa ciambella aromatica, arricchita da semi di anice e vino dolce, rappresenta non solo un dolce da forno, ma un vero e proprio simbolo della convivialità e delle stagioni contadine. La sua preparazione racconta storie di campi assolati, di lavoratori che interrompevano la trebbiatura del grano per concedersi un momento di ristoro, e di famiglie che, con ingredienti semplici e locali, celebravano il cuore dell’estate.

Le origini di questo biscotto affondano le radici nella provincia di Grosseto, dove la vita agricola e le festività si intrecciavano in modo indissolubile. Nel passato, i contadini che lavoravano intensamente nei campi avevano bisogno di spuntini nutrienti, facili da trasportare e resistenti alle alte temperature estive. Il Biscotto di Mezz’Agosto rispondeva perfettamente a queste esigenze: grazie alla presenza di uova, farina, zucchero e lievito, garantiva energia immediata, mentre il vino dolce e i semi di anice ne conferivano un gusto aromatico, leggermente fruttato e persistente. Con il tempo, la ricetta si è consolidata e la ciambella ha assunto un ruolo centrale nella festa di Ferragosto, trasformandosi da semplice spuntino dei lavoratori in dolce celebrativo di tutta la comunità.

Oggi, il Biscotto di Mezz’Agosto mantiene le caratteristiche essenziali della ricetta storica, pur adattandosi alle cucine domestiche moderne. La forma a ciambella è diventata simbolo di unità e convivialità, con ciascun anello che richiama la continuità tra generazioni e la ciclicità della stagione estiva. L’aroma dell’anice, combinato al lieve retrogusto del vino dolce, conferisce al biscotto un profilo organolettico unico, capace di evocare immediatamente le atmosfere toscane di campagna, i profumi di forno e di vacanze estive trascorse tra amici e familiari.

Ingredienti

Per realizzare 8 biscotti di medie dimensioni, occorrono:

  • 500 g di farina 00

  • 200 g di zucchero semolato

  • 3 uova intere

  • 50 g di burro morbido

  • 1 bustina di lievito per dolci

  • 50 ml di vino dolce (Moscato o Vin Santo)

  • 1 cucchiaio abbondante di semi di anice

  • Un pizzico di sale

Questi ingredienti rappresentano la base tradizionale, equilibrando dolcezza, aromi e consistenza soffice ma compatta della ciambella. L’uso del vino dolce è cruciale: conferisce umidità e un profilo aromatico leggermente fruttato, senza rendere il dolce eccessivamente alcolico. I semi di anice, invece, donano un aroma intenso e penetrante, che si sposa perfettamente con la ricchezza del burro e la dolcezza dello zucchero.

Preparazione

  1. Impasto iniziale: In una ciotola capiente, lavorare il burro con lo zucchero fino a ottenere una crema liscia. Aggiungere le uova una alla volta, mescolando bene dopo ciascuna. Incorporare quindi il vino dolce e i semi di anice, amalgamando fino a ottenere un composto omogeneo.

  2. Farina e lievito: Setacciare la farina con il lievito e il pizzico di sale, quindi unirla poco per volta all’impasto liquido. Lavorare delicatamente fino a ottenere una pasta morbida, leggermente elastica ma non appiccicosa.

  3. Formatura dei biscotti: Dividere l’impasto in porzioni uguali, modellando ciascuna in una ciambella di circa 10-12 cm di diametro. È possibile creare anche forme più grandi per una presentazione centrale sulla tavola delle festività.

  4. Lievitazione: Sistemare le ciambelle su una teglia rivestita di carta forno, coprire con un canovaccio pulito e lasciare lievitare per circa 30-45 minuti in luogo tiepido. La lievitazione è fondamentale per ottenere un biscotto soffice all’interno e leggermente dorato all’esterno.

  5. Cottura: Preriscaldare il forno a 180 °C e cuocere i biscotti per 25-30 minuti, fino a quando la superficie risulta leggermente dorata e il profumo dell’anice si diffonde nell’ambiente. È consigliabile non aprire il forno durante la cottura per evitare che la lievitazione si interrompa.

  6. Raffreddamento e conservazione: Una volta cotti, estrarre i biscotti dal forno e lasciarli raffreddare su una gratella. Possono essere conservati in scatole di latta o contenitori ermetici per diversi giorni, mantenendo intatti aroma e consistenza.

Il Biscotto di Mezz’Agosto si presta a molteplici abbinamenti, sia dolci che bevande. La sua struttura compatta e l’aroma di anice lo rendono perfetto con una tazza di tè nero o infusi di erbe, ideali per la colazione o la merenda pomeridiana. Con il vino dolce utilizzato nella preparazione, si sposa naturalmente con un bicchiere di Moscato o Vin Santo, esaltando le note aromatiche senza sovrastarle. Durante le festività, può essere servito insieme a frutta secca, miele o marmellate di stagione, offrendo un contrasto di consistenze e sapori che valorizza il dolce stesso.

Il biscotto può anche accompagnare formaggi stagionati dal gusto delicato, creando un incontro di sapori insolito ma equilibrato. L’accostamento con bevande fredde, come succhi di frutta non troppo dolci, permette di godere di una pausa rinfrescante durante le calde giornate estive.

Il Biscotto di Mezz’Agosto rappresenta un esempio concreto di come la cucina toscana abbia saputo adattare ingredienti semplici alla vita quotidiana e alle necessità stagionali. La sua funzione originaria di sostentamento per i lavoratori agricoli si è evoluta in un dolce celebrativo, simbolo della festa di Ferragosto, capace di connettere tradizione e modernità. Ogni ciambella racchiude la storia di generazioni che hanno valorizzato ingredienti locali, tecniche di lievitazione e aromi naturali, tramandando ricette che oggi conservano lo stesso fascino di un tempo.

Dal punto di vista tecnico, il biscotto evidenzia una lavorazione che richiede attenzione nella lievitazione e nella cottura, affinché la ciambella mantenga la giusta friabilità esterna e morbidezza interna. La scelta di semi di anice di qualità e di un vino dolce adeguato è determinante per ottenere un equilibrio perfetto tra aromi e texture, facendo emergere il carattere autentico del dolce toscano.

Questo approfondimento sul Biscotto di Mezz’Agosto offre una guida completa non solo alla preparazione, ma anche alla comprensione del contesto storico, culturale e gastronomico che lo ha reso un simbolo delle festività estive in Toscana. La ricetta, semplice ma raffinata, permette di rivivere tradizioni centenarie e di portare sulla tavola odierna un pezzo di storia contadina, celebrando l’incontro tra ingredienti naturali, tecniche classiche e il piacere del gusto condiviso.


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Biscione Reggiano: Tradizione, Arte e Gusto del Dolce Natalizio di Reggio Emilia

Il Biscione reggiano, noto anche come biscione natalizio, rappresenta uno dei simboli più raffinati della pasticceria di Reggio Emilia, capace di raccontare secoli di storia culinaria attraverso un dolce apparentemente semplice ma ricco di tradizione e tecnica. Questo dolce, la cui forma ricorda quella di un serpente o di un drago dalle fauci spalancate, non è soltanto un dessert: è un documento vivo della cultura gastronomica emiliana, una creazione che lega le mani dei pasticceri moderni a quelle dei loro antenati, custodi di saperi trasmessi per generazioni.

La particolarità del Biscione reggiano risiede nella sua struttura, nel suo equilibrio di sapori e nella delicatezza della sua superficie, coperta da una sottile meringa bianca. Nonostante la semplicità apparente degli ingredienti principali – mandorle, zucchero, uova e canditi – la preparazione richiede attenzione meticolosa e conoscenza tecnica. Ogni fase, dall’impasto alla cottura, è determinante per ottenere la giusta friabilità della meringa e la consistenza morbida e aromatica della pasta interna, che deve conservare il profumo naturale delle mandorle senza risultare stucchevole.

Il Biscione reggiano affonda le sue radici nella tradizione delle antiche pasticcerie di Reggio Emilia, città che ha da sempre rappresentato un crocevia di culture e saperi gastronomici. Secondo alcune fonti locali, la versione moderna del dolce sarebbe stata ideata in una pasticceria cittadina, dove il titolare, insieme a un team di pasticceri provenienti da varie parti d’Italia, creò questa specialità come dono natalizio per i dipendenti. Tuttavia, tracce di dolci simili si riscontrano in diverse regioni italiane, seppur con differenze nelle forme e negli ingredienti: si ricordano il bissòlo a Milano, il bicciolano a Vercelli, il bisolàn a Piacenza, il busilàn a Parma e il bussolà in Veneto. Tali dolci hanno circolato principalmente nei conventi, dove gli ordini religiosi tramandavano ricette elaborate e poi adattate alle materie prime disponibili localmente.

Una curiosità storica interessante riguarda la presenza di dolci simili al Biscione anche in Spagna, come il mazapán de Toledo, conosciuto come anguilla di Toledo. Questo parallelismo testimonia la circolazione delle ricette tra le corti e i conventi europei, un flusso culturale che ha contribuito a consolidare la tradizione dolciaria in Emilia-Romagna, rendendo il Biscione un punto di riferimento unico, capace di combinare raffinatezza estetica e sapori tradizionali.

L’importanza culturale del Biscione reggiano è oggi riconosciuta ufficialmente: il dolce è inserito nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali (PAT) dell’Emilia-Romagna, mentre un riconoscimento IGP è attualmente in fase di istruttoria. Questo attestato non solo ne certifica la qualità e la tipicità, ma tutela anche le tecniche di produzione tradizionali, che richiedono manualità esperta e precisione.

La realizzazione del Biscione reggiano richiede diverse fasi di lavorazione, ciascuna delle quali è fondamentale per ottenere un prodotto finale equilibrato e armonioso. Il primo passo consiste nella selezione delle mandorle, che devono essere di alta qualità, possibilmente leggermente tostate per esaltare l’aroma naturale. Le mandorle vengono poi tritate finemente e amalgamate con zucchero e uova, formando un impasto omogeneo ma leggermente morbido.

I canditi rappresentano un elemento distintivo del Biscione, conferendo un tocco di dolcezza e colore che contrasta con la base chiara del dolce. Possono essere realizzati con scorze di arancia o cedro, tagliate a cubetti minuti e incorporati con delicatezza nell’impasto. È fondamentale distribuire i canditi in maniera uniforme per garantire un gusto equilibrato in ogni fetta.

La formatura del dolce richiede particolare attenzione: l’impasto viene modellato a forma di serpente o di drago, arrotolato secondo le dimensioni desiderate. Alcune versioni prevedono strutture a più piani di una tortiera, consentendo di ottenere dolci lunghi e scenografici. La superficie viene quindi ricoperta di meringa bianca, preparata montando a neve albume e zucchero fino a ottenere una consistenza lucida e stabile. La meringa deve conservare il colore chiaro durante la cottura, proteggendo la pasta interna dal calore diretto del forno.

La cottura rappresenta un passaggio critico: il dolce viene infornato a temperatura moderata, permettendo alla meringa di asciugarsi senza brunire e alla pasta di cuocere uniformemente. La durata varia in base alle dimensioni e allo spessore del Biscione, ma una cottura attenta garantisce che il dolce mantenga la giusta friabilità esterna e morbidezza interna.

Ricetta del Biscione Reggiano

Ingredienti per 6-8 persone:

  • 250 g di mandorle pelate

  • 200 g di zucchero semolato

  • 3 uova intere

  • 80 g di canditi (scorza d’arancia o cedro)

  • 2 albumi

  • 50 g di zucchero a velo (per la meringa)

Procedimento:

  1. Tritare le mandorle fino a ottenere una farina fine.

  2. In una ciotola capiente, unire le mandorle tritate con lo zucchero e le uova, mescolando fino a ottenere un impasto uniforme.

  3. Incorporare delicatamente i canditi tagliati a cubetti.

  4. Modellare l’impasto a forma di serpente o drago, sistemandolo su una teglia rivestita di carta forno.

  5. Preparare la meringa montando a neve gli albumi e aggiungendo gradualmente lo zucchero a velo fino a ottenere una consistenza lucida e ferma.

  6. Ricoprire la superficie del dolce con la meringa, livellandola con una spatola.

  7. Infornare a 160°C per circa 25-30 minuti, controllando che la meringa non assuma colorazioni eccessive.

  8. Sfornare e lasciare raffreddare completamente prima di servire.

Il Biscione reggiano può essere conservato per diversi giorni in un contenitore ermetico, mantenendo intatta la friabilità della meringa e il gusto aromatico della pasta interna.

Per apprezzare appieno la complessità dei sapori del Biscione reggiano, è consigliabile abbinarlo a bevande che ne esaltino le note dolci e aromatiche senza sovrastarle. Tra le opzioni più indicate si trovano il vin santo o un passito dell’Emilia-Romagna, capaci di armonizzarsi con la dolcezza delle mandorle e dei canditi. Per chi preferisce bevande calde, un tè nero leggermente speziato o un caffè dalla tostatura media rappresentano compagni ideali, offrendo un contrasto equilibrato con la consistenza friabile della meringa.

In termini di accompagnamenti gastronomici, il Biscione reggiano può essere servito insieme a frutta secca o confetture leggere, creando un’esperienza di degustazione completa, in grado di raccontare la tradizione natalizia reggiana in ogni boccone.

Il Biscione reggiano non è solo un dolce: è un viaggio attraverso la storia delle pasticcerie italiane, un esempio di come semplicità e tecnica possano fondersi in un prodotto che celebra la cultura locale. Ogni fetta racconta storie di mani sapienti, di conventi, di scambi culturali tra regioni e nazioni, e di una città che ha saputo conservare la sua tradizione dolciaria attraverso i secoli. Prepararlo a casa significa entrare in contatto diretto con questa eredità, comprendendo l’importanza di ingredienti selezionati, tecniche precise e un rispetto quasi rituale della storia gastronomica. Gustarlo, invece, significa assaporare un frammento di Reggio Emilia, un dolce che parla di territorio, di festa e di saper fare artigiano.



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Bensone: un tesoro della tradizione modenese tra storia, semplicità e gusto

Il bensone, dolce dalla forma ovale tipico della provincia di Modena, rappresenta uno dei più antichi e radicati prodotti della tradizione dolciaria emiliana. La sua semplicità e genuinità lo rendono un simbolo di una cultura gastronomica che affonda le radici nel medioevo e che ha attraversato i secoli senza perdere la sua identità. Questo dolce, riconosciuto come Prodotto Agroalimentare Tradizionale (P.A.T.), è la testimonianza di come un impasto semplice e ingredienti essenziali possano dar vita a una preparazione che accompagna da generazioni momenti di convivialità e feste popolari.

La storia del bensone è strettamente legata alla comunità di Modena, che fin dal XIII secolo utilizzava questo dolce per celebrare occasioni speciali, come la festa patronale dedicata alle corporazioni degli artigiani, in particolare fabbri e orafi. La scelta del bensone per queste occasioni sottolinea il suo valore simbolico come dolce “di comunità”, capace di unire nella condivisione il lavoro e la celebrazione. L’etimologia del nome bensone è oggetto di discussione: una delle ipotesi più accreditate suggerisce una derivazione dal francese pain de son, cioè “pane di crusca”. Questo si rifà all’utilizzo originario di farine meno raffinate, non setacciate, che conferivano al dolce una consistenza più rustica e un gusto pieno, legato alle materie prime di qualità disponibile nei piccoli centri agricoli.

L’antica ricetta del bensone prevedeva un impasto a base di farina, latte, uova, burro e miele. Con il passare del tempo, il miele è stato sostituito dallo zucchero, riflettendo l’evoluzione delle abitudini alimentari e la maggiore disponibilità di questo dolcificante. Nonostante questi piccoli aggiustamenti, la ricetta è rimasta sostanzialmente fedele al modello tradizionale, preservando un equilibrio gustativo che valorizza l’essenzialità degli ingredienti e la loro qualità. Il burro, in particolare, conferisce all’impasto una morbidezza e una fragranza peculiari che distinguono il bensone da altri dolci simili diffusi nelle regioni limitrofe, come la ciambella romagnola, che invece utilizza lo strutto.

La versatilità del bensone si manifesta anche nella possibilità di farcirlo con marmellata o con il savòr, una confettura tipica della zona ottenuta da una miscela di frutta cotta, spesso arricchita con spezie, che aggiunge un tocco aromatico e complesso. Il dolce può essere gustato sia nella sua forma semplice, tagliato a fette e accompagnato da un bicchiere di vino lambrusco, sia arricchito dalla dolcezza delle marmellate locali. Questa pratica gastronomica sottolinea l’abitudine emiliana di valorizzare i prodotti del territorio con abbinamenti che esaltano sapori tradizionali e artigianali.

La preparazione del bensone richiede un’attenzione particolare agli ingredienti e alla lavorazione dell’impasto. La farina, di media forza, deve essere setacciata con cura per garantire una consistenza uniforme e un risultato finale soffice ma compatto. Le uova, il burro e il latte, tutti a temperatura ambiente, vengono amalgamati insieme con lo zucchero fino a ottenere un composto omogeneo e morbido. Il lievito, che può essere quello di birra o un lievito chimico delicato, conferisce al bensone una lieve sofficezza, senza comprometterne la caratteristica densità. L’impasto viene quindi modellato in una forma ovale, classica e tradizionale, e lasciato riposare prima della cottura, che avviene in forno a temperatura moderata per consentire una doratura uniforme e una perfetta cottura interna.

Ricetta del Bensone tradizionale modenese

Ingredienti:

  • 500 g di farina 00

  • 150 g di zucchero semolato

  • 150 g di burro morbido

  • 2 uova intere

  • 120 ml di latte intero

  • 10 g di lievito di birra fresco (o 8 g di lievito chimico)

  • 1 pizzico di sale

  • Granella di zucchero per decorare (facoltativa)

  • Marmellata o savòr per farcitura (opzionale)

Preparazione:

  1. In una ciotola capiente setacciare la farina insieme al lievito e al pizzico di sale.

  2. In un’altra ciotola, sbattere le uova con lo zucchero fino a ottenere un composto spumoso.

  3. Aggiungere il burro ammorbidito e continuare a mescolare, incorporando poi il latte a filo.

  4. Unire gradualmente gli ingredienti liquidi a quelli secchi, impastando energicamente fino a ottenere un composto liscio, elastico e omogeneo.

  5. Coprire l’impasto con un canovaccio e lasciare lievitare in un luogo tiepido per circa un’ora, o fino al raddoppio del volume.

  6. Riprendere l’impasto, lavorarlo brevemente per sgonfiarlo, quindi modellarlo in una forma ovale.

  7. Disporre il bensone su una teglia rivestita di carta forno, spennellare la superficie con un po’ di latte e, se desiderato, cospargere con granella di zucchero.

  8. Cuocere in forno preriscaldato a 180 °C per 35-40 minuti, fino a doratura uniforme.

  9. Sfornare e lasciare raffreddare completamente su una griglia prima di tagliare a fette.

Il bensone può essere gustato così com’è oppure tagliato e farcito con marmellata di prugne, albicocche o con il tradizionale savòr. Questo dolce, semplice e rustico, trova nella sua storia e nella sua lavorazione un perfetto equilibrio tra sapori antichi e la praticità della cucina casalinga.

Tradizionalmente, il bensone viene servito accompagnato da un calice di vino Lambrusco, tipico della zona modenese. Questo vino rosso frizzante, con il suo equilibrio tra acidità e dolcezza, esalta il sapore delicato del dolce e ne contrasta la ricchezza burrosa. La freschezza effervescente del Lambrusco aiuta a pulire il palato, rendendo ogni morso di bensone piacevolmente persistente e mai stucchevole.

Alternativamente, per chi preferisce un abbinamento analcolico, una tazza di tè nero leggermente aromatico o un infuso alle erbe come la camomilla possono accompagnare con delicatezza la degustazione, senza sovrastare la semplicità degli ingredienti.

Il bensone rappresenta un vero e proprio patrimonio culturale e gastronomico dell’Emilia, un dolce che si è tramandato nel tempo mantenendo intatte la sua essenza e la sua capacità di raccontare la storia di un territorio. La sua preparazione, semplice ma attenta, e il suo gusto equilibrato lo rendono un prodotto apprezzato sia nelle occasioni di festa che nella quotidianità, capace di unire tradizione e convivialità in ogni fetta.



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Baci di Cherasco: Tradizione e Gusto dal Cuore del Piemonte

Nel panorama delle specialità dolciarie italiane, i Baci di Cherasco occupano un posto di rilievo grazie alla loro storia antica, alla qualità degli ingredienti e a una lavorazione che ha mantenuto intatto il valore artigianale. Questi piccoli cioccolatini, frutto della tradizione piemontese, rappresentano un perfetto connubio tra il cioccolato fondente e le pregiate nocciole Tonda Gentile, simbolo di un territorio vocato alla produzione di frutti di altissimo pregio.

I Baci di Cherasco nascono ufficialmente nel 1881, quando un giovane pasticcere della cittadina di Cherasco, dopo un periodo di apprendistato a Torino, decise di fondare la sua pasticceria, la Barbero. Fu proprio qui che vennero creati i primi esemplari di questo dolce, immediatamente apprezzato per la sua semplicità e per la genuinità degli ingredienti utilizzati.

La scelta di Cherasco come luogo di produzione non è casuale: questa zona della provincia di Cuneo è rinomata per la coltivazione della nocciola Tonda Gentile, una varietà dalla forma rotonda e dal sapore delicato, che trova il suo miglior sviluppo in questo territorio grazie alle condizioni climatiche e al suolo particolarmente adatti. La nocciola Tonda Gentile è, infatti, da sempre considerata tra le migliori al mondo per il consumo fresco e per l’utilizzo nella pasticceria e nella produzione di cioccolato.

Il nome “Baci” deriva dalla forma irregolare e dalla dimensione ridotta di questi cioccolatini, che sembrano quasi “baciati” dalla perfezione della natura e dalla maestria artigianale. A differenza di altri prodotti simili, come i più famosi Baci Perugina, i Baci di Cherasco presentano una composizione più semplice e una texture più croccante, data dalla presenza abbondante delle nocciole tostate tritate.

La ricetta tradizionale dei Baci di Cherasco prevede una base di cioccolato fondente con circa il 60-70% di cacao, lavorato insieme a nocciole Tonda Gentile rigorosamente tostate e spezzettate. L’aggiunta di burro di cacao garantisce una consistenza setosa e una migliore fusione in bocca. Il cioccolato e le nocciole sono amalgamati in modo da lasciare i frammenti di frutta ben riconoscibili e croccanti, conferendo al cioccolatino una piacevole struttura granulosa.

I Baci non hanno una forma regolare come le praline industriali: vengono semplicemente porzionati a mano in piccoli pezzi e lasciati raffreddare su superfici di carta da forno, assumendo una forma unica e spontanea, che rende ogni pezzo diverso dall’altro. Questa irregolarità è una delle caratteristiche che testimoniano la produzione artigianale e la cura posta in ogni fase della lavorazione.

Nonostante la loro semplicità, i Baci di Cherasco sono riconosciuti come Prodotto Agroalimentare Tradizionale (P.A.T.) italiano, un riconoscimento che ne sottolinea il valore culturale e gastronomico legato alla tradizione regionale. La conservazione richiede attenzione soprattutto nei mesi estivi, poiché il cioccolato fondente può facilmente sciogliersi; tuttavia, non sono necessari additivi o conservanti, a conferma della loro purezza.

Preparare i Baci di Cherasco a casa è un esercizio di pazienza e precisione che consente di avvicinarsi a una delle più autentiche tradizioni dolciarie piemontesi. La base è costituita da un cioccolato fondente con un contenuto di cacao intorno al 70%, preferibilmente di qualità elevata e privo di ingredienti aggiunti come oli vegetali.

Il cioccolato va sciolto a bagnomaria, per evitare che il calore diretto ne comprometta la consistenza e il sapore. Una volta liquido, si aggiunge un cucchiaio di zucchero a velo per armonizzare il gusto amaro del cacao e si incorpora lentamente una quantità generosa di nocciole Tonda Gentile tostate e spezzettate grossolanamente. Le nocciole possono essere tritate con un mattarello o un batticarne, in modo da ottenere frammenti di diverse dimensioni, che daranno ai Baci la loro caratteristica croccantezza.

Il composto così ottenuto va distribuito a cucchiaiate su un foglio di carta da forno, lasciando spazio tra un cioccolatino e l’altro. È importante evitare di livellare la superficie per preservare la forma irregolare tipica. Dopo qualche ora di raffreddamento a temperatura ambiente o, in estate, in frigorifero, i Baci di Cherasco saranno pronti per essere gustati.

I Baci di Cherasco si prestano ad accompagnare diversi momenti della giornata, dal dopo pranzo a un semplice break pomeridiano. La loro struttura e il sapore deciso ma equilibrato li rendono ideali in abbinamento con bevande calde o fredde che ne esaltino la ricchezza senza sovrastarla.

Un abbinamento classico è con un caffè espresso, che grazie alla sua intensità e alla sua acidità sottolinea la dolcezza delle nocciole e la complessità del cioccolato fondente. In alternativa, un tè nero leggermente aromatico, come un Assam o un Darjeeling, può rappresentare un ottimo complemento per chi preferisce un sapore meno amaro ma ugualmente strutturato.

Per gli amanti del vino, un passito piemontese o un Barolo chinato sono scelte eccellenti. Questi vini dolci e aromatici si sposano con la nocciola e il cacao, arricchendo l’esperienza gustativa e valorizzando la qualità del prodotto artigianale.

I Baci di Cherasco sono molto più di un semplice cioccolatino: sono un piccolo gioiello della tradizione dolciaria piemontese, testimone di una cultura gastronomica che sa coniugare ingredienti semplici e di qualità con la sapienza artigianale. Il rispetto della materia prima, l’attenzione alla lavorazione e la volontà di mantenere vivo un prodotto locale hanno garantito a questo dolce una fama solida e meritata.

Nel panorama attuale, dominato da produzioni industriali e globalizzate, i Baci di Cherasco rappresentano un richiamo autentico al passato, un invito a riscoprire sapori antichi e a valorizzare la biodiversità e il territorio. Per chi desidera avvicinarsi alla cultura del cioccolato italiano con occhi esperti, questi piccoli doni del Piemonte sono un punto di partenza imprescindibile.

Ricetta per 20 Baci di Cherasco

Ingredienti:

  • 200 g di cioccolato fondente al 70%

  • 100 g di nocciole Tonda Gentile del Piemonte tostate

  • 15 g di burro di cacao (opzionale, per migliorare la consistenza)

  • 20 g di zucchero a velo (facoltativo)

Procedimento:

  1. Tritare grossolanamente le nocciole tostate, lasciando pezzi di diversa grandezza per una migliore croccantezza.

  2. Sciogliere a bagnomaria il cioccolato fondente, mescolando delicatamente fino a ottenere una consistenza liscia e omogenea.

  3. Se si desidera, aggiungere il burro di cacao al cioccolato fuso e mescolare bene per amalgamare.

  4. Incorporare lo zucchero a velo, se si vuole moderare l’amarezza, e le nocciole tritate.

  5. Distribuire il composto su una teglia coperta con carta da forno, formando mucchietti di dimensioni simili ma irregolari, tipici della tradizione.

  6. Lasciare raffreddare a temperatura ambiente o in frigorifero fino a solidificazione completa.

  7. Conservare in un luogo fresco e asciutto, consumando entro una settimana per garantire freschezza e croccantezza.

Abbinamento Consigliato:

  • Caffè espresso

  • Tè nero Assam o Darjeeling

  • Vino passito piemontese o Barolo chinato

Questi abbinamenti esalteranno le note tostate della nocciola e l’amarezza equilibrata del cioccolato fondente, offrendo un’esperienza di degustazione completa e raffinata.



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Assabesi: una tradizione dolciaria tra storia, sapori e curiosità

Nel panorama della pasticceria italiana, i cosiddetti “Assabesi” rappresentano una categoria di dolci dal fascino articolato e variegato. La denominazione, che può apparire insolita ai più, indica infatti diverse preparazioni dolciarie, accomunate principalmente dall’impiego di cacao o liquirizia, ma anche un formato di pasta. Questo termine racchiude dunque un mondo di prodotti dalla forma, consistenza e gusto differenti, la cui storia è legata a eventi storici e culturali ben precisi. Scoprire gli Assabesi significa immergersi in un passato ricco di suggestioni, tra la tradizione coloniale italiana e l’evoluzione della pasticceria locale.

Il nome “Assabesi” deriva dal luogo geografico di Assab, una baia situata nel Corno d’Africa, che nel XIX secolo divenne una delle prime colonie italiane. Nel 1884, durante l’Esposizione Generale Italiana, alcuni abitanti di questa regione vennero presentati come attrazioni, un evento che rifletteva lo spirito coloniale dell’epoca e che ebbe risvolti anche nel campo gastronomico.

Lo storico Guido Abbattista sostiene che proprio in seguito a questa esposizione il termine “Assabesi” iniziò a essere utilizzato per denominare particolari dolci italiani che presentavano ingredienti esotici, come il cacao e la liquirizia. Già nei primi mesi del 1885, pubblicità su giornali italiani attestano la presenza di biscotti chiamati “Assabesi”, anticipando l’inserimento della ricetta nel manuale di pasticceria di Ciocca, uno dei testi più autorevoli dell’epoca.

Il termine “Assabesi” si riferisce a tre principali tipologie di dolci:

  1. Biscotti al cacao a forma di ciambella: Questi biscotti si distinguono per la loro forma rotonda e l’aroma marcato di cacao, che conferisce un sapore intenso e leggermente amaro, equilibrato dalla dolcezza dell’impasto. La loro consistenza è croccante, ideale per essere accompagnata da bevande calde.

  2. Pasticcini di pan di Spagna ricoperti di crema e cioccolato: Una versione più elaborata che unisce la morbidezza del pan di Spagna alla ricchezza del cioccolato e della crema, creando un dessert raffinato, dalla consistenza soffice e avvolgente. Questi pasticcini rappresentano una declinazione più golosa e adatta a occasioni speciali.

  3. Caramelle di liquirizia e gomma arabica a forma di facce o animali: Un prodotto più giocoso e distintivo, le caramelle di liquirizia assumono forme particolari, ispirate a volti africani o a figure animali, richiamando le origini geografiche e culturali del nome. Questi dolciumi sono caratterizzati da un sapore intenso e persistente, apprezzato dagli amanti della liquirizia.

Un ulteriore utilizzo del termine “Assabesi” riguarda un formato di pasta, meno noto ma che arricchisce ulteriormente la complessità del vocabolo.

Ricette e preparazione

Biscotti al cacao a forma di ciambella

Per preparare questi biscotti è necessario un impasto semplice ma curato nei dettagli:

Ingredienti:

  • 250 g di farina 00

  • 70 g di cacao amaro in polvere

  • 150 g di zucchero semolato

  • 120 g di burro morbido

  • 2 uova medie

  • 1 bustina di lievito per dolci

  • Un pizzico di sale

  • Aromi a piacere (vaniglia o scorza di agrumi)

Procedimento:

  1. In una ciotola si lavora il burro con lo zucchero fino a ottenere una crema morbida.

  2. Si aggiungono le uova una alla volta, continuando a mescolare.

  3. In un’altra ciotola si setacciano farina, cacao, lievito e sale.

  4. Gli ingredienti secchi vengono incorporati al composto liquido, mescolando fino a ottenere un impasto omogeneo e leggermente elastico.

  5. Si preleva una piccola quantità di impasto e si modella a forma di ciambella.

  6. I biscotti vengono disposti su una teglia foderata di carta forno e cotti a 180°C per 15-18 minuti.

  7. Una volta raffreddati, si possono conservare in una scatola di latta per mantenerne croccantezza e aroma.

Pasticcini di pan di Spagna ricoperti di crema e cioccolato

Questa preparazione richiede più passaggi e un’attenzione particolare alla crema:

Ingredienti:

  • Pan di Spagna (preparato o acquistato)

  • Crema pasticcera al cioccolato

  • Cioccolato fondente per copertura

  • Zucchero a velo per decorare

Procedimento:

  1. Il pan di Spagna viene tagliato in piccoli rettangoli o forme ovali.

  2. Ogni pezzo viene farcito con crema al cioccolato, preparata scaldando latte, zucchero, tuorli, farina e cacao in polvere.

  3. I pasticcini vengono poi ricoperti di cioccolato fondente fuso, lasciando raffreddare per far solidificare la glassa.

  4. Infine, una spolverata di zucchero a velo conferisce un tocco elegante.

Caramelle di liquirizia e gomma arabica

Queste caramelle richiedono l’uso di liquirizia pura e gomma arabica, un ingrediente naturale che dona elasticità e morbidezza al prodotto finale:

Ingredienti:

  • Estratto di liquirizia pura

  • Zucchero

  • Sciroppo di glucosio

  • Gomma arabica

  • Aromi naturali

Procedimento:

  1. Si sciolgono zucchero, sciroppo e gomma arabica a temperatura controllata.

  2. Si aggiunge l’estratto di liquirizia e gli aromi.

  3. Il composto viene colato in stampi a forma di volti o animali e lasciato raffreddare.

  4. Le caramelle vengono poi confezionate singolarmente per preservarne freschezza e sapore.

Gli Assabesi si prestano ad accompagnamenti diversi a seconda della tipologia:

  • Biscotti al cacao: Ideali con caffè espresso, tè nero o bevande a base di latte, che ne esaltano la croccantezza e il sapore intenso. Possono accompagnare anche vini dolci da dessert, quali il Moscato d’Asti o il Vin Santo.

  • Pasticcini di pan di Spagna: Perfetti con vini liquorosi come il Passito di Pantelleria o un Brachetto d’Acqui, grazie alla loro dolcezza e cremosità che si bilanciano con la componente alcolica.

  • Caramelle di liquirizia: Consigliate insieme a infusi digestivi, come tisane a base di finocchio o menta, oppure con amari alle erbe che ne armonizzano l’aroma deciso.

Gli Assabesi, nella loro varietà, rappresentano più di un semplice dolce: sono una testimonianza della cultura e della storia italiana, intrecciata a momenti di espansione coloniale e alla valorizzazione di ingredienti esotici. La loro preparazione e il loro consumo raccontano storie di tradizione e innovazione, che meritano di essere conosciute e mantenute vive nelle cucine di oggi.

In un’epoca in cui la globalizzazione spesso tende a uniformare sapori e ricette, riscoprire prodotti come gli Assabesi significa abbracciare l’identità culinaria locale e riconoscere la ricchezza delle nostre radici. Se volete assaporare un pezzo di storia dolciaria italiana, preparare o gustare gli Assabesi è un passo che vi condurrà in un viaggio tra gusto e memoria.



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Anicini: i piccoli biscotti all’anice della tradizione lombarda

Nel vasto panorama della pasticceria regionale italiana, i biscotti all’anice occupano un posto speciale, soprattutto nella tradizione lombarda dove si tramandano da generazioni come simbolo di semplicità e genuinità. Tra questi, gli Anicini rappresentano una delle espressioni più autentiche di un territorio ricco di storia e sapori. Questi biscotti, piccoli e fragranti, sono caratterizzati dall’aroma intenso e inconfondibile dell’anice, che li rende perfetti per accompagnare un caffè, un tè o un momento di pausa durante la giornata.

La loro origine si perde nel tempo, ma come per molti dolci della tradizione contadina, gli Anicini nascono dall’esigenza di valorizzare ingredienti poveri ma ricchi di gusto. L’anice, usato sia per le sue proprietà aromatiche sia per le presunte virtù digestive, è da sempre molto presente nella cucina popolare lombarda. In passato, questi biscotti venivano preparati in casa durante le festività o in occasione di momenti di convivialità familiare, come segno di ospitalità e cura verso gli ospiti.

La semplicità degli ingredienti rifletteva la realtà economica e sociale delle comunità rurali lombarde, dove non si sprecava nulla e ogni risorsa veniva impiegata con attenzione. Gli Anicini, così, sono diventati una testimonianza gustosa e profumata di questo stile di vita, arrivando fino ai giorni nostri quasi intatti nelle loro caratteristiche fondamentali.

Gli Anicini sono biscotti di piccole dimensioni, generalmente di forma allungata o leggermente irregolare, dal colore dorato e dalla consistenza croccante ma non troppo dura. Il loro tratto distintivo è senza dubbio il profumo intenso di anice, conferito dai semi usati nell’impasto.

Questi biscotti non solo sono apprezzati per il loro sapore unico, ma anche per la loro versatilità: possono essere consumati come semplice snack, serviti a fine pasto o accompagnati da bevande calde. La leggerezza e la friabilità li rendono inoltre molto amati anche da chi preferisce dolci non troppo dolci o elaborati.

La ricetta tradizionale degli Anicini prevede pochi ingredienti semplici ma di qualità:

  • Farina di frumento, solitamente tipo 00, che garantisce una consistenza soffice e friabile

  • Zucchero semolato, per bilanciare il sapore e donare dolcezza

  • Burro, elemento fondamentale per la morbidezza e il gusto ricco

  • Uova, che legano l’impasto e contribuiscono alla struttura

  • Semi di anice, il vero cuore aromatico del biscotto

  • Lievito per dolci, presente in alcune versioni per alleggerire ulteriormente la consistenza

Ogni famiglia, inoltre, può vantare la propria variante, aggiungendo qualche aroma in più o modificando le proporzioni in base al gusto personale.

La preparazione degli Anicini è semplice, ma richiede attenzione per ottenere la giusta consistenza e un profumo equilibrato. Di seguito una guida passo passo:

  1. Lavorare il burro con lo zucchero: In una ciotola capiente, si mescolano burro ammorbidito e zucchero fino a ottenere una crema omogenea e soffice.

  2. Incorporare le uova: Si aggiungono le uova, uno alla volta, continuando a mescolare per amalgamare bene gli ingredienti.

  3. Aggiungere i semi di anice: Questo è il momento di unire i semi di anice, la cui quantità può variare in base all’intensità di aroma desiderata.

  4. Setacciare la farina e il lievito: Farina e lievito vengono setacciati e poi incorporati poco per volta al composto liquido, lavorando l’impasto fino a ottenere una massa compatta ma elastica.

  5. Formare i biscotti: Con le mani leggermente infarinate, si prelevano piccole porzioni di impasto che vengono modellate in bastoncini o losanghe, distanziandoli su una teglia rivestita di carta forno.

  6. Cottura: La teglia viene posta in forno preriscaldato a 180°C per circa 15-20 minuti, o finché i biscotti assumono un colore dorato chiaro.

  7. Raffreddamento: Una volta sfornati, gli Anicini vanno lasciati raffreddare completamente prima di essere consumati, così da mantenere croccantezza e aroma.

Consigli per una riuscita perfetta

  • È importante non eccedere con la cottura per evitare che i biscotti diventino troppo duri.

  • Se si preferisce un sapore di anice più delicato, si possono tritare leggermente i semi prima di aggiungerli all’impasto.

  • Per chi desidera una versione meno dolce, si può ridurre la quantità di zucchero senza compromettere la struttura.

Gli Anicini trovano il loro ideale accompagnamento in bevande calde come il tè o il caffè, grazie alla loro friabilità e all’aroma speziato che ben si sposa con queste bevande. Sono perfetti anche con infusi di erbe, soprattutto se a base di finocchio o camomilla, che ne esaltano la delicatezza.

Per chi ama abbinamenti più ricercati, gli Anicini possono essere serviti insieme a vini dolci da dessert o liquori alle erbe, come l’anice o il mirto, creando un contrasto tra dolcezza e aromaticità.

Gli Anicini rappresentano non solo un prodotto gastronomico ma anche un legame con le radici culturali della Lombardia. Sono simbolo di una cucina povera ma ricca di significato, che celebra l’arte di trasformare ingredienti semplici in qualcosa di speciale.

Nel contesto delle festività, soprattutto natalizie, questi biscotti assumono un ruolo centrale, diventando dono e gesto di condivisione. Ancora oggi, molte famiglie lombarde li preparano seguendo le ricette tramandate da madri e nonne, mantenendo viva una tradizione che affonda le sue radici nel passato.

Gli Anicini sono un esempio vivido di come la cucina tradizionale possa raccontare storie di territorio, cultura e famiglia. Con pochi ingredienti e una preparazione semplice, riescono a trasmettere un senso di calore e accoglienza, grazie al loro aroma unico e alla loro consistenza invitante.

Se non li avete mai assaggiati, vi invito a provarli, magari accompagnati da una tazza di tè o di caffè, per un momento di dolcezza che vi riporterà direttamente alle atmosfere della Lombardia autentica. Per chi ama cimentarsi ai fornelli, prepararli in casa è un gesto di rispetto verso la tradizione e un modo per assaporare un pezzo di storia culinaria italiana.



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Amor Polenta: la torta tradizionale di Varese che celebra la farina di mais e la cultura lombarda

 


L’Amor Polenta, conosciuto anche come amorpolenta o dolce di Varese, rappresenta una delle specialità più radicate nella tradizione culinaria della Lombardia. Originario della città di Varese, questo dolce si distingue per la sua preparazione semplice ma di grande personalità, grazie soprattutto all’utilizzo della farina di mais, ingrediente che racconta la storia e la cultura di un territorio profondamente legato alle coltivazioni locali.

La storia dell’Amor Polenta si intreccia con la cultura contadina lombarda, dove la farina di mais ha da sempre rappresentato un alimento essenziale, non solo per la polenta salata ma anche per preparazioni dolciarie. Nata probabilmente nel XIX secolo, questa torta trae il suo nome dalla sua base principale – la polenta dolce –, che viene arricchita con zucchero, burro e uova per trasformarsi in un dessert ricco e soffice.

Il termine "amorpolenta" deriva dalla combinazione di due elementi fondamentali: “amor” (amore), a sottolineare la cura con cui veniva preparata questa torta nelle famiglie varesine, e “polenta”, proprio perché il suo impasto è dominato dalla farina di mais. In passato, questa torta era spesso realizzata per celebrare le festività o i momenti importanti, diventando così un simbolo di convivialità e tradizione.

Ciò che rende riconoscibile l’Amor Polenta è anche la sua forma, ottenuta con uno stampo scanalato, che regala alla torta un profilo caratteristico. Questa particolarità estetica non è solo un dettaglio visivo ma riflette la cura artigianale e l’attenzione ai dettagli tipiche della pasticceria tradizionale lombarda.

La ricetta dell’Amor Polenta si basa su pochi ingredienti semplici ma scelti con cura: farina di mais macinata grossolanamente, zucchero, uova, burro, latte e talvolta aromi naturali come scorza di limone o vaniglia. L’assenza di lieviti artificiali conferisce alla torta una consistenza particolare, che è morbida all’interno ma al tempo stesso compatta e dal gusto rustico.

La farina di mais non solo definisce il sapore, ma influenza anche la texture, dando a questa torta una caratteristica granulosa che si distingue dalle classiche torte a base di farina di grano. Il burro e le uova, invece, arricchiscono l’impasto, conferendo una morbidezza che rende il dolce piacevole da gustare in ogni momento della giornata.

La preparazione dell’Amor Polenta richiede attenzione e una certa manualità, soprattutto per ottenere la giusta consistenza dell’impasto e la forma perfetta. Ecco come si realizza seguendo la ricetta tradizionale:

Ingredienti:

  • 200 g di farina di mais (preferibilmente macinata a pietra)

  • 150 g di zucchero

  • 100 g di burro fuso

  • 3 uova medie

  • 150 ml di latte intero

  • Scorza grattugiata di un limone non trattato

  • Un pizzico di sale

  • 1 cucchiaino di lievito per dolci (opzionale, per una versione più soffice)

Procedimento:

  1. Preparare gli ingredienti: Iniziate preriscaldando il forno a 180°C. Imburrate e infarinate uno stampo scanalato da circa 22 cm di diametro, fondamentale per conferire all’Amor Polenta la sua forma tipica.

  2. Mescolare gli ingredienti secchi: In una ciotola capiente, unite la farina di mais con lo zucchero, il lievito (se utilizzato) e un pizzico di sale. Mescolate bene per distribuire uniformemente gli ingredienti.

  3. Incorporare gli ingredienti liquidi: In un’altra ciotola, sbattete le uova con il burro fuso tiepido, il latte e la scorza di limone. Quindi versate lentamente il composto liquido nel mix di farina di mais, mescolando con una spatola o un cucchiaio di legno fino a ottenere un impasto omogeneo ma denso.

  4. Versare nello stampo: Trasferite l’impasto nello stampo preparato, livellando la superficie con una spatola.

  5. Cottura: Infornate per circa 40-45 minuti. La torta sarà pronta quando sarà ben dorata in superficie e uno stecchino inserito al centro uscirà pulito.

  6. Raffreddamento e servizio: Lasciate raffreddare l’Amor Polenta nello stampo per una decina di minuti prima di sformarla. Si consiglia di servire a temperatura ambiente per apprezzarne al meglio consistenza e profumi.

Sebbene la versione tradizionale non preveda aggiunte particolari, è possibile arricchire la ricetta con alcune varianti per adattarla ai gusti moderni. Per esempio, l’aggiunta di gocce di cioccolato fondente nell’impasto crea un contrasto interessante con la dolcezza rustica della farina di mais. Alcuni preferiscono aggiungere una nota di cannella o utilizzare aromi naturali come la vaniglia per un profumo più intenso.

Per una versione ancora più soffice, si può incorporare un po’ di farina di frumento insieme a quella di mais, senza però tradire la struttura granulosa che caratterizza questo dolce.

L’Amor Polenta è un dolce versatile, adatto sia alla colazione che a una merenda energetica. Grazie alla sua consistenza compatta e al sapore delicato, si abbina perfettamente a bevande calde come caffè espresso o tè nero. La sua ricchezza lo rende ideale anche accompagnato da una tazza di cioccolata calda nelle giornate più fredde.

Per chi desidera una combinazione più ricercata, si può accompagnare con marmellate di frutta dal gusto deciso, come quella di arancia amara o di frutti di bosco, oppure con una crema leggera al mascarpone. Anche un vino dolce, come un passito locale o un Moscato, può esaltare i sapori dell’Amor Polenta senza sovrastarli.

L’Amor Polenta rappresenta più di una semplice torta: è un racconto di territorio, di tradizione e di passione per la cucina genuina. In un’epoca in cui le proposte dolciarie tendono spesso a uniformarsi a gusti globalizzati, questo dolce riporta alla luce la ricchezza delle specialità regionali, ricordandoci il valore degli ingredienti semplici e dell’artigianalità.

Preparare l’Amor Polenta è un gesto che unisce passato e presente, che permette di portare in tavola un pezzo di storia lombarda e di condividerlo con amici e famiglia. Per chi ama scoprire sapori autentici e rispettare le tradizioni locali, questo dolce è una tappa obbligata.

Provare la ricetta dell’Amor Polenta a casa, con i suoi gesti lenti e rispettosi della materia prima, è un modo per entrare in contatto con una cultura culinaria antica eppure viva, capace di emozionare ogni palato.

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Cassatella: il dolce segreto della Sicilia occidentale tra devozione e piacere


Ci sono dolci che raccontano storie antiche, intrecciate a mani laboriose, giornate di festa e tradizioni che sopravvivono solo nei borghi dove il tempo scorre più lento. La cassatella, tesoro dolciario della Sicilia occidentale, è uno di questi. Conosciuta anche come cassatella di ricotta o cassatella trapanese, è una mezza luna fragrante che racchiude un cuore morbido di ricotta zuccherata e cioccolato fondente.

Ma chiamarla semplicemente "dolce fritto" sarebbe riduttivo. La cassatella non è soltanto una preparazione da pasticceria popolare: è un rito familiare, spesso legato alla Settimana Santa, alle feste patronali, ai matrimoni e alle tavolate domenicali. In ogni casa, in ogni paese tra Trapani, Erice e Alcamo, esiste una variante leggermente diversa, un dettaglio tramandato da madre in figlia, da zia a nipote. È proprio in queste sfumature che la cassatella rivela la sua vera essenza.

Affondando le radici nell’eredità dolciaria araba e normanna dell’isola, la cassatella nasce probabilmente come variante rustica e casalinga della più sontuosa cassata. Se quest’ultima ha conquistato le tavole delle corti e dei conventi, la cassatella è rimasta fedele alla cucina popolare, quella dei vicoli e delle famiglie contadine.

La ricotta zuccherata, ingrediente centrale, richiama la cultura pastorale siciliana, mentre la presenza del cioccolato e della cannella testimonia la stratificazione culturale dell’isola, influenzata da mercanti spagnoli e arabi. L'impasto, simile a una frolla all’olio o al vino, ricorda le preparazioni povere, nate per durare a lungo e resistere alla frittura.

In passato, si preparavano in occasione del Venerdì Santo, per poi consumarle nella domenica di Pasqua. Oggi, le troviamo tutto l’anno, ma chi le conosce davvero sa che il momento migliore per gustarle è ancora quello delle festività religiose, quando profumi e ricordi si mescolano nell’aria.

Ingredienti e ricetta tradizionale

Ingredienti per circa 20 cassatelle:

Per l'impasto:

  • 500 g di farina 00

  • 100 g di zucchero semolato

  • 60 ml di olio extravergine d’oliva

  • 100 ml di vino bianco secco

  • 1 uovo

  • Scorza grattugiata di 1 limone non trattato

  • Un pizzico di sale

Per il ripieno:

  • 500 g di ricotta di pecora ben scolata

  • 150 g di zucchero a velo

  • 50 g di gocce di cioccolato fondente

  • Un pizzico di cannella (facoltativo)

  • Scorza grattugiata d’arancia o limone (opzionale)

Per friggere:

  • Olio di arachide in abbondanza

Per completare:

  • Zucchero a velo per spolverare

Preparazione passo-passo

1. Prepara l’impasto

In una ciotola capiente versa la farina, lo zucchero, un pizzico di sale e la scorza di limone. Aggiungi l’uovo, l’olio e il vino bianco. Inizia a impastare fino a ottenere un panetto morbido ma sodo, non appiccicoso. Lavora l’impasto sul piano per almeno 10 minuti, poi coprilo con pellicola e lascialo riposare per mezz’ora.

2. Prepara il ripieno

In un’altra ciotola lavora la ricotta con lo zucchero a velo fino a ottenere una crema liscia. Incorpora le gocce di cioccolato e, se gradite, un pizzico di cannella e scorza d’agrumi. Conserva il ripieno in frigo mentre stendi l’impasto.

3. Stendi l’impasto

Trascorso il tempo di riposo, stendi l’impasto su un piano leggermente infarinato. Lo spessore deve essere sottile, circa 2-3 mm. Con un coppapasta o una ciotola ricava dei dischi da 10-12 cm di diametro.

4. Farcisci e chiudi

Al centro di ogni disco metti un cucchiaio abbondante di ripieno. Chiudi a mezzaluna sigillando bene i bordi con le dita, poi premi con i rebbi di una forchetta. Assicurati che non ci siano aperture: durante la frittura, potrebbero fuoriuscire.

5. Friggi le cassatelle

Scalda abbondante olio di arachide in una padella profonda. Quando l’olio è caldo (circa 170°C), friggi poche cassatelle alla volta. Devono dorarsi in modo uniforme. Scolale su carta assorbente e, una volta intiepidite, spolverale con zucchero a velo.

Consigli per una cassatella perfetta

  • Ricotta: usa solo ricotta di pecora, ben scolata. Se è troppo fresca, lasciala una notte in frigo in uno scolapasta.

  • Riposo dell’impasto: è fondamentale per una buona elasticità. Non saltare questo passaggio.

  • Frittura: l’olio deve essere caldo ma non fumante. Se è troppo freddo, l’impasto assorbirà troppo olio.

In alcune zone si aggiungono canditi o uvetta nel ripieno, mentre altre versioni preferiscono una frolla al burro. A Erice, si preparano anche al forno, più leggere ma con un gusto diverso, meno rustico. Alcune famiglie usano anche marsala o vino dolce al posto del vino bianco nell’impasto, per un aroma più intenso.

La cassatella, ricca e avvolgente, merita un vino dolce siciliano in accompagnamento. Il Marsala Superiore è una scelta classica e coerente con le radici del dolce. Per chi preferisce qualcosa di più fresco, un Moscato di Pantelleria o un Zibibbo servito leggermente freddo è perfetto per bilanciare la ricchezza della frittura e la dolcezza della ricotta.

In alternativa, si può abbinare a un buon caffè espresso amaro, che taglia la dolcezza e rinvigorisce il palato. Nei giorni di festa, anche un rosolio agli agrumi fatto in casa può accompagnare degnamente una cassatella tiepida, chiudendo in bellezza un pranzo conviviale.

La cassatella non è solo un dolce, ma una memoria che si mangia, una carezza fatta impasto, una ricotta che parla di pascoli e mani antiche. È quel tipo di preparazione che racconta l’amore per le cose fatte bene, lentamente, con pazienza e rispetto.

Prepararla oggi significa onorare una tradizione, ma anche portarla nel presente, adattandola ai propri gusti e rinnovandone la vitalità. In un mondo che corre, la cassatella ci ricorda il valore di fermarsi, impastare con calma, ascoltare il silenzio tra un morso e l’altro.



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La Zonclada – Tradizione e intensità in una pietanza friulana dimenticata

Nell’angolo più silenzioso del Friuli, dove le montagne si confondono con il cielo e i paesi sembrano sospesi nel tempo, resiste una ricetta che pochi ricordano e ancor meno osano replicare: la Zonclada. Difficile trovarla nei menù delle trattorie o nei mercatini di paese. Eppure, chi ha avuto il privilegio di assaggiarla una volta ne conserva un ricordo vivido, quasi ancestrale. È un piatto che non cerca di piacere a tutti, ma che conquista con la sua rudezza contadina, con la sua struttura compatta e la sapidità decisa.

In questo post vi racconterò cosa rende la Zonclada qualcosa di più di una semplice ricetta. È un frammento di un Friuli che scompare, un piatto che si preparava nei giorni freddi, nei casolari isolati, quando la polenta si serviva a fette e il formaggio si tagliava con il coltello grosso. Oggi vi accompagno nel cuore di questa preparazione, tra fuoco vivo, profumi forti e sapori che non fanno sconti. Pronti a riscoprire un piatto che sa di legna, latte e terra? Allora partiamo.

Le origini della Zonclada si perdono nella parte settentrionale del Friuli, tra le valli carniche e le malghe dell’Alto Tagliamento. Il nome stesso è avvolto nel mistero: potrebbe derivare dal termine “zonclâr”, che in alcuni dialetti locali indica una forma grezza o “schiacciata”, oppure potrebbe riferirsi al gesto di “zonclare”, ossia premere e compattare, azione chiave nella fase finale della preparazione.

La Zonclada nasce come piatto contadino, creato per utilizzare ciò che si aveva in dispensa senza sprechi: formaggio stagionato avanzato, pane raffermo, erbe selvatiche e, quando si poteva, un po’ di carne affumicata. Era un pasto nutriente, pensato per sostenere lunghe giornate nei campi o nel bosco. Alcune famiglie la cuocevano sotto la cenere, in teglie di ferro pesante, altre invece la sistemavano sul fogher, il focolare domestico, lasciandola asciugare lentamente.

Sebbene non abbia mai avuto una codifica ufficiale, la Zonclada è stata tramandata oralmente, modificandosi da famiglia a famiglia. In alcune versioni è quasi una torta salata, in altre ricorda un pasticcio compatto di pane, formaggio e lardo. Ma il cuore rimane lo stesso: una pietanza intensa, rustica, che si taglia a fette e si condivide.

Ricetta tradizionale della Zonclada

Ingredienti per 6 persone

  • 400 g di pane raffermo (possibilmente di segale o integrale)

  • 300 g di formaggio di malga (stagionato, tipo latteria vecchio)

  • 150 g di pancetta affumicata (tagliata a dadini)

  • 2 cipolle dorate (finemente tritate)

  • 3 uova intere

  • 1 bicchiere di latte intero

  • Erbe di montagna essiccate (maggiorana, timo, un pizzico di genepì se disponibile)

  • Pepe nero macinato al momento

  • Burro q.b.

  • Sale grosso q.b.

  • 1 cucchiaio di farina di mais (per spolverare la teglia)

Preparazione passo-passo

1. Preparazione del pane
Tagliate il pane raffermo a piccoli cubetti e mettetelo in una ciotola capiente. Scaldate leggermente il latte e versatelo sul pane per ammorbidirlo. Lasciate riposare per circa 20 minuti, mescolando di tanto in tanto.

2. Soffritto rustico
In una padella, fate sciogliere una noce di burro e rosolate dolcemente le cipolle tritate. Quando saranno morbide e traslucide, aggiungete la pancetta affumicata e lasciate insaporire fino a leggera doratura. Spegnete il fuoco e lasciate raffreddare.

3. Assemblaggio dell’impasto
Strizzate leggermente il pane se è troppo bagnato. Unitevi il soffritto, il formaggio tagliato a cubetti irregolari, le uova sbattute, un’abbondante macinata di pepe nero e un cucchiaino raso delle erbe essiccate. Mescolate con decisione: dovete ottenere un impasto compatto, umido ma non liquido. Se troppo morbido, potete aggiungere un po’ di farina di mais.

4. Cottura lenta e decisa
Imburrate generosamente una teglia in ghisa o ceramica e spolveratela con farina di mais. Versate l’impasto e compattatelo con il dorso di un cucchiaio. La superficie va lisciata ma non pressata troppo. Infornate in forno già caldo a 180°C per circa 45 minuti, fino a ottenere una crosta dorata e croccante. Se si secca troppo in superficie, potete coprire con un foglio di alluminio negli ultimi dieci minuti.

5. Riposo e servizio
La Zonclada va lasciata riposare almeno 15 minuti fuori dal forno prima di essere tagliata. Il tempo aiuta i sapori a compattarsi e la struttura a reggersi meglio al taglio.

La Zonclada chiama complicità, e il vino ne è parte essenziale. Scegliete un refosco dal peduncolo rosso: la sua acidità vivace e la nota leggermente erbacea contrastano perfettamente con la grassezza del piatto. In alternativa, un Schioppettino di Prepotto con il suo profumo speziato e corpo pieno regge benissimo la sfida.

Come contorno, vi consiglio cavolo cappuccio marinato in aceto di mele, pepe e cumino: la sua freschezza e acidità deterge il palato tra un morso e l’altro, alleggerendo l’esperienza complessiva. In inverno, si sposa bene anche con una zuppa di fagioli e orzo, servita prima della Zonclada come apertura.

E per chiudere, se volete rimanere in tema, niente dolce elaborato: solo una grappa friulana barricata, da sorseggiare con calma davanti al camino, magari parlando sottovoce, come si faceva una volta.

La Zonclada non è solo un piatto. È un’esperienza che appartiene a un mondo più lento, più ruvido e forse più sincero. Cimentarsi nella sua preparazione significa scegliere un gesto di fedeltà alla terra, a una cucina che non rincorre mode ma conserva memoria. È una forma di resistenza gastronomica, un atto di fiducia nei confronti della materia prima e del tempo che ci vuole per trasformarla.

In un’epoca dove tutto tende a essere filtrato, smussato, addolcito, la Zonclada si impone come un ritorno all’essenziale. Sazia, sorprende, divide. Alcuni la ameranno alla prima forchettata, altri ne resteranno spiazzati. Ma tutti riconosceranno che in quel piatto c’è una storia. E le storie, come i sapori veri, non si dimenticano.



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Zuccotto: il dolce rinascimentale che incanta ancora oggi

Il zuccotto è uno di quei dolci che raccontano una storia. Non solo quella delle sue origini, immerse nelle atmosfere raffinate della Firenze rinascimentale, ma anche quella di un'Italia che sa trasformare ingredienti semplici in opere d’arte da gustare. Un dessert che sorprende per la sua forma a cupola, per il contrasto tra il pan di Spagna imbevuto di liquore e il cuore cremoso e goloso. È un dolce antico, ma non stanco. Tradizionale, ma mai banale. E oggi lo riscopriamo insieme, tra passato, tecnica e sapori.

Firenze, XVI secolo. La città è nel pieno della sua fioritura artistica e culturale. Tra palazzi, affreschi e mecenati, nasce anche l’arte della tavola come forma di eleganza e prestigio. Si narra che sia stato Bernardo Buontalenti, architetto, scenografo e maestro di feste di corte, a creare questo dolce per un banchetto della famiglia Medici. La forma, secondo la leggenda, si ispirerebbe all’elmo dei soldati o addirittura alla Cupola del Brunelleschi, simbolo architettonico di Firenze.

In origine lo zuccotto veniva chiamato “elmo di Caterina” o “zucchetto”, per via della sua forma semisferica. Gli ingredienti erano diversi da quelli odierni: si trattava di un semifreddo con ricotta, zucchero, spezie orientali (come cannella e noce moscata), scorze di agrumi e liquori forti come l’alchermes, utilizzato anche per la sua colorazione rossa. Veniva poi lasciato congelare nella neve, in assenza ovviamente di frigoriferi.

Il tempo lo ha trasformato. Le versioni più moderne usano il pan di Spagna per rivestire lo stampo e una farcia cremosa al cioccolato, panna, canditi o gelato. Ma la struttura è rimasta fedele: una cupola ripiena, elegante, dal sapore deciso e sempre festoso.

Ingredienti per uno zuccotto classico (6-8 porzioni)

Per il pan di Spagna:

  • 4 uova

  • 120 g di zucchero

  • 100 g di farina 00

  • 20 g di fecola di patate

  • Un pizzico di sale

Per la bagna:

  • 100 ml di Alchermes

  • 50 ml di acqua

  • 1 cucchiaio di zucchero

Per il ripieno:

  • 300 ml di panna fresca da montare

  • 250 g di ricotta vaccina ben sgocciolata

  • 100 g di zucchero a velo

  • 100 g di cioccolato fondente tritato

  • 70 g di canditi misti (arancia, cedro)

  • 1 cucchiaino di estratto di vaniglia

Per decorare (opzionale):

  • Zucchero a velo

  • Scaglie di cioccolato

  • Frutta candita

Preparazione passo-passo

1. Prepara il pan di Spagna

Inizia montando le uova con lo zucchero fino a ottenere un composto chiaro, gonfio e spumoso (ci vorranno almeno 8-10 minuti con una planetaria o fruste elettriche). Incorpora a mano, poco alla volta, la farina setacciata con la fecola e un pizzico di sale, usando una spatola con movimenti dal basso verso l’alto per non smontare l’impasto.

Versa il composto in una teglia rettangolare (30x40 cm) rivestita di carta forno e cuoci in forno statico a 180°C per 20 minuti. Lascia raffreddare su una gratella, poi ritaglia delle fette rettangolari sottili.

2. Prepara la bagna

In un pentolino scalda l'acqua con lo zucchero finché non si scioglie. Spegni il fuoco e aggiungi l’alchermes. Lascia raffreddare completamente.

3. Fodera lo stampo

Prendi uno stampo semisferico (diametro 20 cm) e rivestilo con pellicola trasparente. Fodera l’interno con le fette di pan di Spagna, leggermente sovrapposte tra loro. Usa un pennello per spennellare con cura ogni fetta con la bagna all’alchermes. Conserva alcune fette per chiudere il dolce alla fine.

4. Prepara il ripieno

Setaccia bene la ricotta e mescolala con lo zucchero a velo e la vaniglia. A parte, monta la panna ben fredda. Unisci delicatamente la panna al composto di ricotta, poi incorpora anche il cioccolato tritato e i canditi.

Versa metà del ripieno nello stampo foderato. Se vuoi, puoi aggiungere uno strato interno di pan di Spagna e terminare con l’altra metà del ripieno. Copri il tutto con le fette di pan di Spagna rimanenti, sempre spennellate di alchermes.

5. Lascia riposare

Chiudi bene con pellicola e lascia in frigorifero per almeno 5-6 ore, meglio ancora tutta la notte. Per un effetto più “gelato” puoi metterlo in freezer per 3 ore e poi passarlo in frigo un’ora prima di servire.

6. Sforma e decora

Togli lo stampo dal frigo, capovolgilo su un piatto da portata, rimuovi la pellicola e decora a piacere con zucchero a velo, cioccolato o frutta candita.

Il zuccotto, con la sua struttura ricca e la nota liquorosa dell’alchermes, si abbina perfettamente a vini dolci e aromatici. Tra i migliori compagni:

  • Vin Santo toscano: dolce, avvolgente, richiama la tradizione rinascimentale del dessert.

  • Moscato d’Asti: per chi preferisce un abbinamento più fresco e fruttato.

  • Passito di Pantelleria: esalta la parte candita del ripieno, offrendo una chiusura calda e intensa.

Per chi ama i liquori, un bicchierino di Alchermes a temperatura ambiente può rafforzare l’esperienza gustativa, richiamando i profumi del dolce.

Se vuoi invece proporlo come dolce da tè, una miscela profumata di Earl Grey o un Darjeeling maturo esalteranno la parte cremosa e contrastante del dolce.

Preparare uno zuccotto è un atto d’amore per la cucina italiana più colta, quella che non ha paura della ricchezza né della bellezza. Un dolce che non si limita a chiudere un pasto, ma lo suggella con eleganza. La sua cupola non è solo un omaggio architettonico, ma una metafora: sotto quella forma precisa si nasconde un cuore sorprendente, variegato e pieno di storia.

Saperlo fare bene significa conoscere l’equilibrio tra consistenze, tra liquido e solido, tra dolce e liquoroso. Significa anche conoscere la pazienza dell’attesa: è un dolce che si riposa, che si lascia conquistare nel tempo.

Che sia servito in estate come semifreddo o in inverno come dolce ricco da fine pasto, lo zuccotto resta una dichiarazione d’intenti: la cucina è cultura, tecnica, memoria e creatività.







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Il Fiadone: il dolce abruzzese che racconta la Pasqua e la transumanza

C’è un dolce che profuma di storia pastorale, di riti contadini e di forno a legna, ed è il Fiadone, una specialità dell’Abruzzo che racchiude in sé la memoria della Pasqua e delle antiche rotte della transumanza. Morbido, dorato, con quel gusto pieno di ricotta appena affiorata, zucchero e uova, il fiadone non è solo un dessert: è un simbolo di festa, identità e radicamento alla terra.

In ogni casa abruzzese, soprattutto nella settimana che precede la Pasqua, il fiadone torna a fare capolino nei forni e sulle tavole, come rito di rinascita e condivisione. Ma a dispetto della semplicità degli ingredienti, racchiude una stratificazione culturale e affettiva che vale la pena raccontare.

Il termine "fiadone" deriva probabilmente dal latino flado, che indicava una focaccia farcita di formaggi e uova, diffusa già in epoca romana. In Abruzzo, questa parola è giunta fino a noi per designare due preparazioni diverse: una versione dolce, diffusa soprattutto nelle zone interne come Sulmona e L’Aquila, e una versione salata, tipica delle aree costiere e del Molise, spesso arricchita con formaggi stagionati e uova.

Il fiadone dolce ha però una collocazione simbolica molto forte: è il dolce della Pasqua, della resurrezione, del ritorno della luce dopo il digiuno e il silenzio della Quaresima. La sua preparazione coincide con l'arrivo del latte fresco, che le pecore iniziano a produrre copiosamente con la primavera, e la ricotta fresca diventa così la protagonista di molte preparazioni tradizionali.

Questo dolce era un tempo il frutto di un’arte contadina e paziente: le donne lo preparavano con ricotta appena cagliata, sbattendo le uova a mano in grandi catini e aromatizzando l’impasto con buccia di limone grattugiata. Il forno a legna, acceso per cuocere il pane settimanale, veniva sfruttato anche per la cottura del fiadone, inserito in teglie pesanti di ferro o rame stagnato.

Il fiadone, inoltre, rappresentava un’offerta pasquale: veniva portato in chiesa per la benedizione e poi condiviso con vicini, parenti, compari e amici. Nella sua forma più antica e tradizionale, il fiadone è una torta rustica, alta, dal profumo inconfondibile, avvolta in una pasta sottile, quasi sfoglia, che racchiude il ripieno umido e compatto.

Ingredienti per uno stampo da 24 cm

Per la pasta:

  • 250 g di farina 00

  • 2 uova intere

  • 30 ml di olio extravergine di oliva (delicato)

  • 1 pizzico di sale

  • 2 cucchiai di zucchero

  • Latte (solo se necessario per ammorbidire l’impasto)

Per il ripieno:

  • 500 g di ricotta di pecora fresca (ben scolata)

  • 5 uova intere

  • 150 g di zucchero

  • Scorza grattugiata di 1 limone non trattato

  • Un pizzico di cannella (facoltativo)

Preparazione

1. La pasta

Su una spianatoia versate la farina a fontana, rompete al centro le uova, aggiungete lo zucchero, l’olio e un pizzico di sale. Impastate energicamente fino a ottenere un composto liscio, compatto e non appiccicoso. Se troppo asciutto, aggiungete qualche goccia di latte. Avvolgete nella pellicola e lasciate riposare almeno 30 minuti.

2. Il ripieno

In una ciotola capiente lavorate la ricotta con un cucchiaio di legno fino a renderla cremosa. Unite lo zucchero e mescolate. Aggiungete le uova, una alla volta, amalgamandole con cura. Infine profumate con la scorza di limone grattugiata e, se gradite, un pizzico di cannella. Il composto dovrà risultare vellutato e omogeneo, non liquido.

3. Assemblaggio

Stendete la pasta in una sfoglia sottile, di circa 3 mm, e foderate uno stampo precedentemente imburrato e infarinato. Versate il ripieno e livellatelo con una spatola. Con la pasta avanzata, potete creare delle strisce da adagiare a griglia sopra la superficie, o chiudere completamente la torta (a seconda della variante familiare).

Spennellate la superficie con un tuorlo d’uovo sbattuto e infornate in forno statico già caldo a 170°C per circa 45–50 minuti, fino a doratura completa. Lasciate raffreddare completamente prima di sformare.

Consigli e varianti

  • Se volete una consistenza più compatta, potete aggiungere un cucchiaio raso di semolino o di farina al ripieno.

  • Alcune varianti prevedono l’aggiunta di un paio di cucchiai di liquore dolce (tipo Strega o Marsala).

  • È fondamentale usare ricotta di pecora freschissima e ben scolata: lasciatela in frigo a scolare dentro un colino per almeno 4–5 ore.

Il fiadone dolce si serve a temperatura ambiente, tagliato a fette spesse. Si conserva bene per diversi giorni, anzi, migliora leggermente il giorno dopo la preparazione, quando i sapori si amalgamano.

Può essere gustato da solo, come merenda o fine pasto, oppure accompagnato da un bicchiere di passito abruzzese o da un moscato secco. La dolcezza della ricotta, bilanciata dalla nota agrumata del limone e dalla rusticità della sfoglia, si sposa perfettamente con i vini bianchi strutturati o con spumanti metodo classico a dosaggio zero.

Il fiadone non è soltanto un dolce da forno. È un legame culturale tra le generazioni. In molte famiglie la ricetta viene tramandata a voce, custodita con gelosia, e custodisce piccole varianti che rivelano l’origine geografica o addirittura il quartiere della famiglia.

Nei paesi dell’entroterra abruzzese, come Scanno o Castel di Sangro, ogni forno ha la sua versione: più o meno dolce, più o meno speziata, con pasta sottile o più consistente. Ma il cuore resta lo stesso: un omaggio alla terra, al latte, alla rinascita della primavera e alla famiglia.

Preparare il fiadone, ancora oggi, significa fermarsi, impastare con calma, ascoltare il suono della frusta che lavora la ricotta, respirare il profumo che esce dal forno. È un gesto che parla di radici, di tempo ritrovato, di mani che si muovono come un tempo.

Che sia Pasqua o meno, il fiadone merita di tornare sulle nostre tavole. Non solo per il suo gusto rotondo e rassicurante, ma per quello che rappresenta: un pezzo autentico di Italia, fatto di latte, sole, fatica e bellezza senza clamore.

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Cagionetti: I Dolci del Natale Abruzzese che Profumano di Casa e Memoria

In Abruzzo, il Natale ha il profumo intenso dei cagionetti (o caciunitt nel dialetto locale): piccoli ravioli dolci fritti, farciti con un ripieno ricco di frutta secca, mosto cotto, castagne o cioccolato. Una preparazione antica, tramandata da generazioni, che va oltre la cucina: è un rito familiare, un momento collettivo che unisce nonne, madri e nipoti attorno al tavolo impolverato di farina. I cagionetti non sono semplicemente dolci: sono custodi silenziosi di un’identità, specchi di un’Italia che trova nei gesti lenti e nella semplicità il suo senso più autentico.

Oggi li riscopriamo con cura, raccogliendone la storia e restituendo la ricetta tradizionale, per portare sulle nostre tavole un frammento di memoria condivisa.

Le origini dei cagionetti si perdono nel tempo, in un Abruzzo rurale dove la cucina seguiva il ritmo delle stagioni e si nutriva di ciò che la terra offriva. In assenza di ingredienti costosi, le famiglie contadine impiegavano castagne bollite, mosto cotto, noci e mandorle per preparare un ripieno denso, aromatico, corposo. La sfoglia, semplice e sottile, fungeva da scrigno protettivo per questo cuore dolce, che veniva poi fritto nell’olio bollente, pronto a essere gustato caldo o freddo, dopo una spolverata di zucchero a velo.

I cagionetti erano tipicamente preparati in grandi quantità nei giorni precedenti il Natale e distribuiti a parenti, vicini, amici. Ogni famiglia vantava la sua ricetta, con piccole variazioni tramandate oralmente. In alcune versioni, il ripieno prevedeva anche cacao amaro o cioccolato grattugiato; in altre, si aggiungeva scorza d’arancia, liquore all’anice o addirittura marmellata d’uva nera.

Ciò che resta invariato, però, è lo spirito: fare i cagionetti significava stare insieme. Era il Natale stesso, racchiuso in un raviolo profumato di casa.

Ricetta tradizionale dei Cagionetti abruzzesi alle castagne

Ingredienti per circa 30 pezzi

Per l’impasto:

  • 300 g di farina 00

  • 60 ml di olio extravergine d’oliva

  • 100 ml di vino bianco secco

  • Un pizzico di sale

Per il ripieno:

  • 300 g di castagne lessate e pelate

  • 100 g di zucchero

  • 2 cucchiai di cacao amaro

  • 50 g di cioccolato fondente grattugiato

  • 50 g di mandorle tostate tritate

  • 2 cucchiai di mosto cotto (oppure miele scuro)

  • 1 cucchiaino di cannella

  • Scorza grattugiata di 1 limone non trattato

  • Qualche cucchiaio di liquore all’anice (facoltativo)

Per la frittura e decorazione:

  • Olio di semi di arachide

  • Zucchero a velo q.b.

Preparazione passo-passo

  1. Preparare il ripieno.
    Dopo aver lessato le castagne (o usare castagne precotte di qualità), passatele allo schiacciapatate o frullatele fino a ottenere una purea omogenea. Trasferite in una ciotola e aggiungete tutti gli altri ingredienti del ripieno: zucchero, cacao, cioccolato grattugiato, mandorle tritate, cannella, scorza di limone, mosto cotto e, se gradito, il liquore. Mescolate con cura fino a ottenere un composto compatto ma morbido. Se troppo asciutto, potete aggiungere qualche cucchiaio di acqua o latte. Lasciate riposare il ripieno per almeno 30 minuti coperto, affinché i profumi si armonizzino.

  2. Preparare l’impasto.
    In una ciotola capiente versate la farina e il pizzico di sale. Unite l’olio e il vino bianco, quindi iniziate a impastare fino a ottenere un panetto elastico e liscio. Lavoratelo per almeno 10 minuti, poi copritelo con un panno e lasciatelo riposare per 20–30 minuti a temperatura ambiente.

  3. Stendere la sfoglia.
    Dividete l’impasto in più parti e stendetelo con il mattarello o con la macchina per la pasta fino a ottenere una sfoglia sottile, di circa 2 mm. Con un coppapasta rotondo (o un bicchiere), ricavate dei dischi di circa 8–10 cm di diametro.

  4. Farcire e chiudere.
    Disponete al centro di ogni disco un cucchiaino abbondante di ripieno. Ripiegate a metà il disco formando una mezzaluna e sigillate bene i bordi, premendo con le dita o con i rebbi di una forchetta. Assicuratevi che non ci siano aperture, altrimenti in frittura il ripieno potrebbe fuoriuscire.

  5. Friggere.
    Scaldate abbondante olio di semi in una padella dai bordi alti. Quando l’olio è ben caldo (170–180°C), friggete pochi cagionetti alla volta, girandoli fino a doratura uniforme. Scolateli su carta assorbente e lasciateli intiepidire.

  6. Decorare.
    Una volta freddi, spolverizzate i cagionetti con zucchero a velo. Si conservano per diversi giorni in un contenitore chiuso, e anzi migliorano col tempo, quando i profumi si amalgamano.

Il sapore rotondo dei cagionetti, dominato dalla dolcezza delle castagne e dalla nota amarognola del cacao, si abbina bene a un vino da meditazione come il Vin Santo, il Passito di Pantelleria o una Malvasia delle Lipari. Se preferite restare sul territorio, provate un Cerasuolo d’Abruzzo leggermente invecchiato: la sua morbidezza fruttata crea un piacevole contrasto con il fritto.

Per una merenda natalizia, serviteli con una tazza di cioccolata calda densa, magari aromatizzata con scorza d’arancia o un pizzico di peperoncino, per un gioco di sapori più audace.

I cagionetti sono molto più di un dolce natalizio: sono un ponte tra epoche, un rituale affettivo che si rinnova ogni dicembre nelle case d’Abruzzo. Prepararli è un gesto che va oltre la cucina: è un atto d’amore, un dono che affonda le radici nella memoria e si rivolge al futuro.

Portarli in tavola oggi significa custodire un frammento di cultura, offrire a chi ci sta vicino non solo un boccone goloso, ma un messaggio di cura, di appartenenza, di calore. In un’epoca dominata dalla fretta, i cagionetti ci invitano a rallentare, ad assaporare, a ricordare. E forse anche a sognare.



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Il Piccolo Scrigno Ripieno che Racconta l’Italia più Dolce

Ci sono dolci che non si limitano a soddisfare il palato: evocano memorie, raccontano storie, costruiscono legami invisibili tra generazioni. Il bocconotto, con la sua forma minuta e il cuore ricco, appartiene a questa categoria. Più di un semplice pasticcino, è un messaggero della cultura popolare del Sud Italia. Lo si incontra in Abruzzo, in Puglia, in Calabria, ciascuna con una variante unica, ma sempre fedele al concetto originario: un involucro di pasta frolla che custodisce un ripieno goloso, spesso a base di cioccolato, mandorle, marmellata o mostarda d’uva.

Oggi lo riscopriamo insieme: non solo come ricetta, ma come patrimonio da preservare. E magari da offrire a chi amiamo, in quel gesto antico e sempre attuale che è condividere un dolce fatto in casa.

Il bocconotto nasce probabilmente tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, in un’Italia ancora divisa, agricola e profondamente legata alle sue stagioni. Il nome, che rimanda a qualcosa che si consuma in un sol boccone, suggerisce già la sua funzione: un dolce piccolo, perfetto da gustare durante una pausa breve, o come dono da offrire agli ospiti.

Le origini sono contese, ma molti attribuiscono la paternità del dolce a Castel Frentano, un borgo abruzzese dove il bocconotto è diventato simbolo del territorio. Secondo la leggenda, una serva di una famiglia nobile, volendo ricreare con gli ingredienti a disposizione un dessert “degno dei signori”, avrebbe mescolato cioccolato, zucchero, cannella e mandorle, racchiudendo il tutto in una croccante cialda di pasta frolla. Il successo fu tale che il dolce cominciò a essere preparato non solo nelle cucine aristocratiche, ma anche nelle case contadine, dove gli ingredienti venivano adattati alle risorse locali: confetture fatte in casa, noci, vino cotto.

Nel tempo il bocconotto ha assunto diverse forme e farciture: in Puglia lo troviamo con marmellata d’uva e cioccolato, in Calabria con ripieni di fichi secchi e liquore. Ma il principio rimane invariato: un dolce semplice all’apparenza, ma dalla grande ricchezza interiore. Proprio come la gente che lo ha creato.



Ricetta tradizionale del Bocconotto abruzzese

Ingredienti per circa 12 bocconotti:

Per la pasta frolla:

  • 300 g di farina 00

  • 100 g di zucchero

  • 100 g di burro freddo

  • 2 uova

  • Scorza grattugiata di mezzo limone

  • 1 cucchiaino di lievito per dolci

  • Un pizzico di sale

Per il ripieno:

  • 100 g di cioccolato fondente

  • 50 ml di latte

  • 100 g di mandorle tritate finemente

  • 50 g di zucchero

  • 1 tuorlo d’uovo

  • Cannella in polvere (q.b.)

  • Qualche cucchiaio di mostarda d’uva (opzionale, ma consigliata)

Per decorare:

  • Zucchero a velo

Preparazione passo-passo

  1. Preparate la pasta frolla.
    In una ciotola capiente versate la farina setacciata con il lievito, lo zucchero, il pizzico di sale e la scorza di limone. Aggiungete il burro freddo a pezzetti e lavorate velocemente con la punta delle dita fino a ottenere un composto sabbioso. Incorporate le uova e impastate fino a ottenere un panetto liscio e compatto. Avvolgetelo nella pellicola e lasciatelo riposare in frigo per almeno 30 minuti.

  2. Preparate il ripieno.
    In un pentolino fate sciogliere il cioccolato fondente nel latte a fuoco dolce, mescolando continuamente. Una volta fuso, spegnete e aggiungete lo zucchero, le mandorle tritate, un pizzico di cannella e il tuorlo d’uovo. Amalgamate bene fino a ottenere una crema densa. Se desiderate, potete aggiungere anche un cucchiaio di mostarda d’uva per un tocco più tradizionale e profondo.

  3. Assemblate i bocconotti.
    Preriscaldate il forno a 180°C. Imburrate e infarinate degli stampini per tartellette (oppure usate pirottini da muffin). Stendete la pasta frolla a uno spessore di circa 3-4 mm e ritagliate dei dischi abbastanza grandi da rivestire gli stampini. Riempite ogni guscio con un cucchiaio abbondante di ripieno. Coprite con un altro dischetto di pasta frolla e sigillate bene i bordi. Bucherellate leggermente la superficie con uno stecchino per evitare che si gonfi troppo in cottura.

  4. Cottura.
    Infornate i bocconotti per circa 20-25 minuti o finché non saranno dorati in superficie. Sfornateli e lasciateli raffreddare completamente prima di spolverarli con zucchero a velo.



Il bocconotto, per la sua struttura e il gusto intenso del ripieno, si sposa meravigliosamente con vini passiti o liquorosi. Un Montefalco Sagrantino Passito o un Moscato di Saracena calabrese esalteranno la dolcezza senza sovrastarla, bilanciando la componente grassa del cioccolato e quella aromatica della cannella.

Per chi preferisce una bevanda calda, il bocconotto accompagna con grazia un caffè espresso corposo o un tè nero speziato, come un Assam o un Chai Masala.

E se lo si serve a fine pasto, può diventare protagonista di un dessert rustico ma elegante: un piattino con due bocconotti, una quenelle di panna montata non zuccherata e qualche chicco di uva nera fresca.

Preparare i bocconotti non è solo un esercizio di pasticceria casalinga: è un gesto di recupero culturale. In ogni dolcetto c’è l’impronta di mani umili e sapienti, capaci di trasformare ingredienti poveri in un trionfo di gusto. Ecco perché il bocconotto, piccolo e apparentemente semplice, rappresenta un’eccellenza tutta italiana. Portarlo in tavola oggi significa celebrare la nostra tradizione, ma anche affermare un’idea di cucina che non dimentica le sue radici.

Quando ne assaggerete uno, fatelo lentamente. Assaporatelo con la consapevolezza che dietro a quel morso si nasconde più di un ripieno: c’è una storia. E come tutte le grandi storie, vale la pena di essere raccontata.

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Viscotta Scaurati: Il Dolce Croccante della Tradizione Siciliana tra Passato e Presente

 


Nel panorama vasto e variegato della pasticceria siciliana, i viscotta scaurati occupano un posto speciale. Croccanti e fragranti biscotti dal sapore semplice ma profondamente legato alla cultura contadina, questi dolci sono un classico delle tavole di festa, soprattutto durante le festività natalizie e le ricorrenze più sentite. La loro origine è legata a quella che si potrebbe definire una pasticceria “povera”, nata dalla necessità di utilizzare pochi ingredienti ma con grande attenzione alla tecnica di cottura.

Il termine “viscotta” in dialetto siciliano indica proprio un tipo di biscotto, mentre “scaurati” fa riferimento alla particolare modalità di cottura: vengono infatti “scottati” o “scaldati” in forno a temperatura elevata, così da ottenere quella croccantezza esterna che li rende unici. La loro forma tradizionale è spesso irregolare, quasi rustica, ma è proprio questa semplicità a conquistarne i palati.

I viscotta scaurati affondano le loro radici nelle antiche cucine rurali siciliane. In un territorio dove l’agricoltura era ed è ancora un elemento fondamentale, le famiglie preparavano questi biscotti con ingredienti semplici e facilmente reperibili: farina, zucchero, olio d’oliva o strutto, e talvolta un tocco di anice o limone per aromatizzare. La cottura veloce e ad alta temperatura permetteva di conservare a lungo questi dolci, diventando quindi un alimento prezioso soprattutto nei mesi più freddi e durante i viaggi.

Il loro consumo è strettamente legato ai momenti di festa, ma anche a un modo di vivere che valorizza l’essenzialità e la condivisione. Spesso venivano offerti insieme al vino cotto o al mosto cotto, un abbinamento che esalta il contrasto tra la dolcezza caramellata e la fragranza croccante.

Ricetta tradizionale dei Viscotta Scaurati

Ingredienti:

  • 500 g di farina 00

  • 150 g di zucchero semolato

  • 150 ml di olio extravergine d’oliva (o strutto, per una versione più rustica)

  • 150 ml di acqua tiepida

  • 1 cucchiaino di lievito per dolci

  • Scorza grattugiata di 1 limone o arancia

  • 1 cucchiaio di semi di finocchio o anice (facoltativo)

  • Un pizzico di sale

Preparazione

1. Impasto:
In una ciotola capiente, setacciare la farina insieme al lievito e aggiungere lo zucchero, la scorza degli agrumi, i semi di finocchio (se utilizzati) e un pizzico di sale. Incorporare lentamente l’olio extravergine d’oliva e l’acqua tiepida, impastando fino a ottenere un composto morbido, elastico e leggermente appiccicoso. Se necessario, aggiungere un po’ più di acqua o farina per bilanciare la consistenza.

2. Formatura:
Dividere l’impasto in piccole porzioni e modellare delle forme irregolari o allungate, mantenendo uno spessore medio sottile, così che la cottura ad alta temperatura possa rendere i biscotti croccanti ma non troppo duri.

3. Cottura:
Preriscaldare il forno a 220°C e cuocere i viscotta per circa 15-20 minuti. È importante controllare la cottura perché devono risultare dorati e croccanti all’esterno, ma non bruciati. Il segreto sta nella rapidità del calore, che “scalda” e “scaurisce” la superficie.

I viscotta scaurati sono perfetti se accompagnati da bevande calde come un caffè nero intenso o un tè speziato. Tradizionalmente, sono serviti con vini dolci locali, come il passito di Pantelleria o il moscato di Sicilia, che ne esaltano il gusto senza sovrastarlo.

Durante le festività, non è raro trovarli insieme a ricotte fresche o formaggi a pasta molle, in un gioco di contrasti tra dolcezza, acidità e croccantezza che coinvolge tutto il palato.

I viscotta scaurati rappresentano una finestra sul passato e la semplicità della tradizione culinaria siciliana. La loro preparazione, apparentemente semplice, nasconde una sapienza antica e un rispetto profondo per ingredienti poveri ma ricchi di significato. Prepararli oggi significa non solo gustare un dolce fragrante, ma anche tramandare un pezzo di storia che continua a vivere sulle nostre tavole.



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