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Salame di cioccolato: tradizione e gusto senza cottura


Il salame di cioccolato è uno dei dolci da credenza più amati della tradizione italiana e portoghese, capace di unire semplicità e gusto in un formato versatile e accattivante. Questo dessert, che deve il suo nome alla somiglianza visiva con il tipico insaccato, è caratterizzato da un impasto ricco di cioccolato e biscotti, dal sapore intenso e dalla consistenza morbida ma compatta. Perfetto per ogni occasione, dal tè pomeridiano alle festività, il salame di cioccolato rappresenta un’eccellenza della pasticceria casalinga che non richiede cottura, rendendolo accessibile anche ai meno esperti.

Il salame di cioccolato ha radici profonde in Italia e Portogallo, ma la sua fama si è estesa rapidamente anche in Argentina, Uruguay e altre zone del Sudamerica grazie ai flussi migratori italiani del XX secolo. In Portogallo, il dolce è noto come salame de chocolate, mentre in Italia ha acquisito diversi nomi e varianti regionali: “salame turco”, “salame vichingo”, “salame inglese”, “salame del Papa” o “salame del re”. L’appellativo “turco” non indica un’origine geografica ma si riferisce al colore scuro dell’impasto, che ricorda quello della pelle dei Mori. La denominazione “salame vichingo” appare invece negli anni Settanta, all’interno del Manuale di Nonna Papera, un ricettario per bambini che contribuì alla diffusione del dolce in tutta Italia.

In Italia il salame di cioccolato è riconosciuto come prodotto agroalimentare tradizionale (P.A.T.) dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. Questo riconoscimento ne certifica l’importanza storica e culturale nella tradizione dolciaria nazionale, valorizzando le ricette tramandate di generazione in generazione. Le versioni italiane del dolce presentano leggere differenze regionali: in Piemonte esiste la variante conosciuta come “salame del Papa”, tipica della zona alessandrina, mentre in Emilia-Romagna il dolce veniva preparato tradizionalmente nel periodo pasquale. Anche in Sicilia, a Napoli, in Veneto e nelle province di Brescia, Bergamo e Mantova, il salame di cioccolato ha trovato un posto fisso nelle cucine domestiche, celebrando occasioni familiari e festività con il suo gusto intenso e la sua consistenza piacevole.

In Sudamerica, soprattutto in Uruguay, l’impasto viene talvolta arricchito con dulce de leche, conferendo al dolce una nota più morbida e caramellata, che si armonizza perfettamente con il cioccolato e i biscotti sbriciolati. Questa fusione culturale rappresenta un esempio di come le ricette tradizionali possano evolvere e adattarsi a nuovi contesti senza perdere la loro identità.

Il salame di cioccolato si distingue per la sua semplicità di preparazione. Non richiede forno, il che lo rende ideale per chi desidera un dolce pronto in breve tempo senza rinunciare al gusto. La chiave del successo sta nella qualità degli ingredienti e nella corretta amalgamazione dell’impasto.

Gli ingredienti principali includono burro, biscotti secchi, zucchero, cacao amaro e tuorli d’uovo. I biscotti possono essere sbriciolati a mano o con un robot da cucina, a seconda delle preferenze, e la loro scelta influisce sulla consistenza finale: biscotti più friabili creeranno un impasto leggero e facile da affettare, mentre biscotti più compatti doneranno maggiore sostegno alla forma del salame.

Ricetta tradizionale del Salame di cioccolato

Ingredienti (per 6-8 persone):

  • 100 g di burro ammorbidito

  • 250 g di biscotti secchi

  • 100 g di zucchero

  • 50 g di cacao amaro in polvere

  • 3 tuorli d’uovo

Procedimento:

  1. In una ciotola capiente, montare i tuorli con lo zucchero fino a ottenere un composto chiaro e spumoso.

  2. Aggiungere il burro ammorbidito a pezzi e continuare a lavorare l’impasto fino a completo assorbimento.

  3. Sbriciolare i biscotti a mano o con un robot da cucina e unirli al composto di tuorli, zucchero e burro.

  4. Incorporare il cacao amaro setacciato e amalgamare tutti gli ingredienti con attenzione, evitando grumi.

  5. Trasferire l’impasto su un foglio di carta forno e modellarlo a forma di salame, sigillando bene le estremità.

  6. Avvolgere il salame nella carta forno e porlo in frigorifero per 4-5 ore, periodo necessario affinché gli ingredienti si compattino e il dolce possa essere tagliato a fette senza deformarsi.

  7. Prima di servire, rimuovere la carta forno e, se desiderato, spolverare con zucchero a velo o cacao in polvere per un tocco estetico finale.

Il salame di cioccolato si abbina perfettamente a vini dolci e liquorosi, come un Moscato d’Asti, un Passito di Pantelleria o un Vin Santo. Questi vini esaltano la dolcezza del cacao e dei biscotti, bilanciando al tempo stesso la consistenza ricca dell’impasto. Per chi preferisce bevande non alcoliche, tè nero o infusi di frutti rossi creano un contrasto gradevole, mentre caffè espresso o caffè d’orzo aggiungono una nota di intensità che esalta il sapore del cioccolato.

Per un servizio più elaborato, il salame di cioccolato può essere accompagnato da crema inglese, panna montata leggermente zuccherata o frutta fresca di stagione, come fragole o lamponi, che introducono freschezza e colore al piatto. Questa versatilità lo rende adatto non solo come dolce da credenza, ma anche come dessert di fine pasto elegante e scenografico.

Il salame di cioccolato è un esempio perfetto di come semplicità e tradizione possano combinarsi per creare un dessert amato da generazioni. La sua preparazione, priva di cottura, lo rende accessibile, mentre la qualità degli ingredienti determina il successo del risultato finale. La diffusione del dolce in Italia, Portogallo e Sudamerica testimonia la capacità della cucina tradizionale di adattarsi a contesti diversi senza perdere la propria identità.

Oggi il salame di cioccolato è considerato un dolce versatile, perfetto per colazioni, merende o dessert di festa, capace di unire famiglie e amici attorno a un gusto condiviso e a un rituale di convivialità semplice ma significativo. La tradizione, le varianti regionali e le versioni più moderne con aggiunte di frutta secca, liquori o aromi rendono il salame di cioccolato un esempio di come i dolci possano raccontare storie, culture e territori, portando a tavola non solo sapore, ma anche memoria e identità.



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Salòt: il dolce tradizionale di Bra tra storia e gusto


Il Salòt, noto anche come “salotto” in piemontese, rappresenta una delle eccellenze dolciarie meno conosciute ma estremamente significative del Piemonte. Questo dolce al forno, tipico della città di Bra, combina tradizione, tecnica e ingredienti locali in una composizione che racconta la storia gastronomica della zona. Caratterizzato da un impasto soffice e arricchito da frutta candita e confettura di albicocche, il Salòt è un dessert che incarna la maestria artigianale dei pasticceri locali, la loro attenzione alla qualità degli ingredienti e la capacità di preservare la memoria culinaria.

Le origini del Salòt risalgono presumibilmente al XIX secolo, anche se le fonti storiche presentano alcune discrepanze. Alcune testimonianze indicano il 1835 come anno di nascita, attribuendo l’invenzione alla pasticceria Converso di Bra, un laboratorio che, all’epoca, sperimentava con lievitati e dolci da forno di raffinata fattura. Altri storici suggeriscono invece che il dolce si sia sviluppato tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sempre a Bra, come risultato della tradizione locale di celebrare festività e momenti conviviali con preparazioni dolciarie di qualità.

Il nome stesso, “Salòt”, rimanda ai salotti nobiliari e borghesi del Piemonte, dove dolci raffinati venivano serviti durante le occasioni mondane. Oggi, il Salòt è legato principalmente alla festività dell’Epifania, quando alcune pasticcerie della città continuano a proporlo secondo le ricette tramandate. La tradizione vuole che, come avviene con il più famoso re della Befana, all’interno del dolce venga nascosta una fava; chi la troverà sarà considerato fortunato per tutto l’anno. Questo rituale, semplice ma significativo, unisce il piacere del gusto con il fascino della sorpresa, mantenendo vivo il legame tra cibo e cultura.

La preparazione del Salòt richiede attenzione e precisione. Tradizionalmente, l’impasto era realizzato con pasta da pane, a cui venivano aggiunti circa il 10% di lievito, un 25% di burro e latte sufficiente a ottenere una consistenza morbida ma elastica. Un pizzico di sale completava la base, equilibrando i sapori e aiutando a strutturare la pasta durante la lievitazione. Dopo aver lavorato l’impasto fino al giusto grado di elasticità, si stendeva in due dischi uguali.

Sulla superficie di uno dei dischi venivano distribuiti ingredienti caratteristici del Salòt: confettura di albicocche per la dolcezza e l’acidità, cedro candito per l’aroma agrumato e l’uvetta sultanina per un tocco morbido e zuccherino. Successivamente, si sovrapponeva il secondo disco e il dolce veniva lasciato lievitare fino a raddoppiare il volume. Prima della cottura, la superficie veniva decorata con motivi a rombi e cosparsa di zucchero a velo.

La cottura tradizionale, detta “a salamandra”, prevedeva l’esposizione del dolce a calore proveniente dall’alto per circa venti minuti, sufficiente a dorare la superficie senza compromettere la morbidezza interna. Oggi, molte pasticcerie utilizzano impasti di tipo brioche, che semplificano la lavorazione e garantiscono una texture più uniforme e soffice, pur mantenendo intatti i sapori tradizionali.

Ricetta consigliata: Salòt di Bra tradizionale

Ingredienti (per 8-10 persone):

  • 500 g di farina tipo 00

  • 125 g di burro morbido

  • 200 ml di latte intero tiepido

  • 80 g di zucchero

  • 2 uova intere

  • 10 g di lievito di birra fresco

  • 1 pizzico di sale

  • 150 g di confettura di albicocche

  • 50 g di cedro candito a cubetti

  • 50 g di uvetta sultanina

  • Zucchero a velo q.b.

Procedimento:

  1. Sciogliere il lievito nel latte tiepido e lasciar riposare per 10 minuti.

  2. In una ciotola ampia, mescolare la farina con lo zucchero e il sale. Aggiungere le uova e il latte con lievito, iniziando a impastare.

  3. Incorporare gradualmente il burro morbido e lavorare l’impasto fino a ottenere una consistenza liscia ed elastica. Coprire con un canovaccio e lasciare lievitare fino al raddoppio del volume, circa 2 ore.

  4. Dividere l’impasto in due parti uguali e stenderle in due dischi di circa 25 cm di diametro.

  5. Distribuire uniformemente confettura di albicocche, cedro candito e uvetta su uno dei dischi. Sovrapporre l’altro disco e sigillare bene i bordi.

  6. Decorare con motivi a rombi e spolverare con zucchero a velo.

  7. Cuocere in forno preriscaldato a 180 °C per 20-25 minuti, fino a doratura. Lasciar raffreddare prima di servire.

  8. Per mantenere la tradizione, inserire una fava nell’impasto: chi la troverà sarà considerato fortunato per tutto l’anno.

Il Salòt si accompagna in maniera eccellente a vini liquorosi leggeri come un Moscato d’Asti o un Passito di Pantelleria, che ne esaltano la dolcezza e la complessità aromatica. In alternativa, un tè leggermente aromatico o un caffè d’orzo possono bilanciare la ricchezza del burro e la dolcezza della frutta. Per chi desidera un abbinamento più moderno, una crema inglese al profumo di vaniglia o una salsa al cioccolato fondente creano un contrasto interessante con la morbidezza e la delicatezza del dolce.

Il Salòt rappresenta un esempio perfetto di come la pasticceria italiana sappia unire tecniche tradizionali e ingredienti locali per creare dolci capaci di raccontare storie e cultura. Ogni morso porta con sé la memoria dei salotti piemontesi, delle festività dell’Epifania e dell’abilità artigianale dei pasticceri di Bra. Prepararlo in casa richiede cura e attenzione ai dettagli, ma la soddisfazione di ottenere un impasto morbido e ben lievitato ripaga ogni sforzo.

Oltre alla versione classica, il Salòt si presta a varianti creative: si possono aggiungere frutta secca tostata, scorze di agrumi o spezie delicate come cannella e vaniglia per personalizzare il sapore. Anche la scelta del formato è versatile: stampi singoli, mini porzioni o la forma tradizionale a disco permettono di adattare il dolce a contesti diversi, da colazioni festive a dessert di fine pasto eleganti.

Conservato in contenitori ermetici a temperatura ambiente o in frigorifero per pochi giorni, il Salòt mantiene la sua morbidezza e il sapore delicato, rendendolo un dolce da gustare senza fretta, perfetto per momenti di convivialità o per sorprendere ospiti con un prodotto tipico poco conosciuto fuori dal Piemonte.

In sintesi, il Salòt non è solo un dolce: è un viaggio nella tradizione piemontese, un incontro tra ingredienti semplici e tecnica raffinata, un simbolo di creatività artigianale e un’esperienza sensoriale che combina aroma, consistenza e storia. Prepararlo significa entrare in contatto con una delle radici più autentiche della pasticceria italiana, portando a tavola non solo gusto, ma anche cultura e memoria.



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Semifreddo: il dolce al cucchiaio che fonde leggerezza e gusto


Il semifreddo è uno dei dessert più raffinati e versatili della tradizione italiana, amato per la sua consistenza cremosa che unisce la morbidezza della panna montata alla delicatezza delle uova e al sapore degli ingredienti aggiunti. La sua temperatura di servizio, ideale intorno ai -15 °C, consente di apprezzare una struttura vellutata che si scioglie lentamente in bocca, offrendo un’esperienza sensoriale unica. Nonostante la semplicità apparente degli ingredienti – uova, zucchero, panna e aromi o frutta a piacere – la preparazione richiede attenzione ai dettagli, bilanciamento dei sapori e tecnica di montatura, per ottenere una mousse soffice ma stabile, capace di mantenere la sua forma anche dopo il congelamento.

Le origini del semifreddo risalgono al XVIII secolo, quando le creme ghiacciate iniziarono a diffondersi nei grandi salotti italiani come alternativa ai sorbetti, meno cremosi e più semplici. La parola stessa, che significa “mezzo freddo”, descrive perfettamente la natura del dolce: un equilibrio tra la temperatura del freezer e la morbidezza della crema interna. Tradizionalmente preparato con una base di uova e zucchero, lavorate per ottenere una meringa italiana o un pâte à bombe, il semifreddo si distingue dal parfait francese per l’aggiunta della panna montata che alleggerisce la struttura, rendendolo meno denso e più arioso. Nel tempo, il semifreddo ha conosciuto una grande varietà di versioni: dalla classica al cioccolato o alla nocciola, a quelle più moderne con frutta esotica, spezie o alcolici delicati come limoncello o rum. La sua versatilità ne ha fatto un protagonista nelle pasticcerie italiane, così come un dessert da realizzare a casa, grazie a ricette accessibili che non richiedono l’uso di macchine particolari se non il congelatore.

La preparazione di un semifreddo perfetto inizia sempre dalla scelta degli ingredienti. Le uova devono essere freschissime, il tuorlo e l’albume separati con precisione. Lo zucchero serve non solo a dolcificare, ma anche a stabilizzare le uova durante la lavorazione della meringa o del pâte à bombe. La panna deve essere ben fredda e montata a neve morbida, in modo da incorporare aria e conferire leggerezza alla crema. È fondamentale procedere con delicatezza durante l’unione degli ingredienti: la panna non deve smontarsi e la miscela deve risultare omogenea.

Per chi desidera aggiungere frutta, è consigliabile optare per puree fresche o frutti secchi tritati, che andranno incorporati alla fine, mescolando con movimenti dal basso verso l’alto. Gli aromi liquidi, come estratti di vaniglia o liquori delicati, vanno aggiunti poco alla volta, assaggiando la crema per bilanciare i sapori. Una volta pronta, la miscela viene versata in stampi da plumcake, bicchieri o coppette individuali e lasciata rassodare in freezer per almeno quattro ore, meglio se una notte intera. Il semifreddo può essere decorato con scaglie di cioccolato, granella di nocciole, frutta fresca o salsa al caramello al momento di servire.

Ricetta consigliata: semifreddo alla nocciola con cuore di cioccolato

Ingredienti (per 6 persone):

  • 4 tuorli d’uovo

  • 100 g di zucchero semolato

  • 200 ml di panna fresca da montare

  • 100 g di pasta di nocciole

  • 50 g di cioccolato fondente

  • 1 cucchiaio di latte

  • Granella di nocciole per decorare

Procedimento:

  1. Lavorare i tuorli con lo zucchero fino a ottenere un composto chiaro e spumoso.

  2. Sciogliere il cioccolato fondente a bagnomaria con il cucchiaio di latte e lasciarlo intiepidire.

  3. Montare la panna a neve morbida e incorporare delicatamente la pasta di nocciole.

  4. Unire la panna montata al composto di tuorli e zucchero, mescolando dal basso verso l’alto per non smontare la crema.

  5. Versare metà della crema nello stampo prescelto, aggiungere il cioccolato fuso al centro come cuore, quindi completare con la restante crema.

  6. Coprire con pellicola e congelare per almeno quattro ore.

  7. Prima di servire, decorare con granella di nocciole e, se gradito, un filo di cioccolato fondente fuso.

Il semifreddo alla nocciola con cioccolato si sposa perfettamente con vini dolci da dessert, come un passito di Pantelleria o un Vin Santo toscano. In alternativa, un caffè espresso di qualità o un tè nero aromatizzato alla vaniglia possono completare il dessert senza sovrastarne la delicatezza. Per chi preferisce un abbinamento analcolico, una salsa calda di lamponi o frutti di bosco crea un contrasto piacevole con la dolcezza e la cremosità della nocciola.

Questo dolce rappresenta un eccellente compromesso tra tradizione e creatività: la tecnica di base permette infinite varianti, dalla frutta secca agli agrumi canditi, passando per spezie come cannella o zenzero, fino all’utilizzo di cioccolato bianco o gianduia. Ogni modifica richiede attenzione al bilanciamento dei sapori e alla consistenza finale, ma la struttura del semifreddo rende possibile sperimentare con successo anche ingredienti più audaci.

Il semifreddo si presta inoltre a presentazioni eleganti e scenografiche: servito in coppe di vetro trasparente, permette di apprezzare i diversi strati, come una crema di nocciola alternata a strati di frutti o cioccolato. Oppure può essere estratto dallo stampo e affettato come un gelato semifreddo, per un effetto visivo gradevole in buffet e cene speciali.

In termini di conservazione, il semifreddo mantiene la sua consistenza ottimale per circa tre giorni in freezer se coperto correttamente con pellicola o alloggiato in contenitori ermetici. È consigliabile estrarlo dal freezer almeno dieci minuti prima del consumo, in modo che la consistenza diventi cremosa senza perdere la forma.

Il successo del semifreddo risiede nella combinazione di semplicità e tecnica: pochi ingredienti, ma lavorati con attenzione, danno vita a un dessert capace di sorprendere per la leggerezza e il gusto. Ogni variante permette di esplorare nuovi abbinamenti, giocare con consistenze diverse e arricchire l’esperienza sensoriale.

Il semifreddo è più di un semplice dessert: rappresenta un equilibrio perfetto tra dolcezza, cremosità e freschezza, unendo il meglio della pasticceria italiana con la versatilità della preparazione domestica. Prepararlo richiede cura e precisione, ma il risultato finale ripaga ogni sforzo, trasformando un semplice dolce al cucchiaio in un momento di piacere raffinato. La sua capacità di adattarsi agli ingredienti disponibili e alle stagioni lo rende un dessert evergreen, perfetto per ogni occasione, dalla cena in famiglia alle serate più eleganti.

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Sfincia: la dolce leggerezza della Sicilia


Tra le strade odorose della Sicilia, là dove i vicoli di Trapani e dei paesi circostanti si animano nei giorni di festa, c’è un profumo che ritorna puntuale e irresistibile: quello della Sfincia, o Spincia come la chiamano i locali. È un dolce che racconta di mani sapienti, di ingredienti semplici trasformati in meraviglia, di comunità che trovano nell’atto di friggere e condividere un gesto antico e collettivo. Non è soltanto una frittella: è una memoria viva che, a ogni morso, parla della storia millenaria della Sicilia, crocevia di popoli, tradizioni e contaminazioni culturali.

Il termine Sfincia ha radici antiche. Deriva dal latino spongia, “spugna”, e dall’arabo isfanǧ, con lo stesso significato. È un richiamo diretto alla consistenza soffice e ariosa che contraddistingue questo dolce. La Sicilia, terra segnata da dominazioni e scambi, ha accolto nel corso dei secoli tradizioni culinarie da tutto il Mediterraneo, e la Sfincia è un esempio lampante di come un’idea possa essere reinterpretata e resa unica.

Nella provincia di Trapani, in particolare a Buseto Palizzolo, Castellammare del Golfo, Custonaci, Erice, Paceco e Valderice, la Sfincia ha trovato la sua dimora. Ogni paese conserva una propria variante, custodita dalle famiglie e tramandata di generazione in generazione. Non è raro che la stessa ricetta cambi da una casa all’altra, quasi a voler sottolineare la natura popolare e comunitaria di questo dolce.

Dal 1990, a Custonaci si celebra una sagra interamente dedicata alla Sfincia, a testimonianza del suo valore identitario. E se la Sfincia di San Giuseppe – farcita con ricotta e canditi – gode di fama regionale e nazionale, la Sfincia trapanese conserva la sua autenticità di frittella povera ma generosa, nata per accompagnare i momenti di festa con dolcezza e semplicità.

La Sfincia nasce da ingredienti umili, reperibili in ogni dispensa contadina: patate, farina, zucchero, acqua, lievito di birra, semi di anice e scorza di limone. In alcune varianti si aggiunge un tocco di Marsala o un bicchierino di succo d’arancia, che donano profumi più intensi e un retrogusto elegante.

Ingredienti per circa 6 persone:

  • 500 g di farina 00

  • 250 g di patate lesse e schiacciate

  • 80 g di zucchero

  • 25 g di lievito di birra fresco

  • 250 ml di acqua tiepida

  • 1 cucchiaino di semi di anice

  • Scorza grattugiata di 1 limone

  • 1 bicchierino di Marsala (facoltativo)

  • Olio di semi per friggere

  • Zucchero semolato e cannella per spolverare

Procedimento:

  1. Preparare l’impasto: sciogliere il lievito di birra nell’acqua tiepida e unire lo zucchero. In una ciotola capiente disporre la farina e le patate schiacciate. Aggiungere gradualmente l’acqua con il lievito, amalgamando fino a ottenere un composto morbido e appiccicoso.

  2. Aromatizzare: unire i semi di anice, la scorza di limone e, se si desidera, il bicchierino di Marsala. Mescolare energicamente.

  3. Lievitazione: coprire la ciotola con un panno umido e lasciare riposare per almeno 2 ore, finché l’impasto non sarà raddoppiato di volume.

  4. Frittura: scaldare abbondante olio in una pentola profonda. Con l’aiuto di un cucchiaio bagnato, prelevare piccole porzioni di impasto e tuffarle nell’olio bollente. Friggere poche Sfince per volta, fino a doratura uniforme.

  5. Decorazione finale: scolare su carta assorbente e, ancora calde, cospargere con zucchero semolato e una spolverata di cannella.

Il risultato è una frittella dorata, soffice all’interno, con un aroma che unisce la freschezza del limone e la fragranza speziata dell’anice.

Le Sfince non si preparano per se stessi: si cucinano in grandi quantità e si condividono con vicini, parenti, amici. Sono il simbolo di un’ospitalità semplice ma sincera, che caratterizza da sempre il tessuto sociale siciliano. Ogni festa popolare, ogni ricorrenza familiare diventa l’occasione per impastare, friggere e distribuire queste piccole delizie.

La frittura stessa è un rito collettivo: le donne di casa che si alternano davanti all’olio bollente, i bambini che attendono il loro turno per assaggiare la prima frittella spolverata di zucchero, i vicini che passano a salutare e inevitabilmente si ritrovano con un piattino in mano.

La Sfincia, con la sua dolcezza delicata e la nota agrumata, si presta a numerosi abbinamenti.

  • Vini dolci locali: un Moscato di Pantelleria o una Malvasia delle Lipari esaltano il carattere fruttato del dolce.

  • Liquori tradizionali: un bicchierino di Marsala o di Zibibbo accompagna perfettamente la fragranza delle Sfince appena fritte.

  • Bevande analcoliche: per chi preferisce qualcosa di più leggero, un tè nero speziato alla cannella o un infuso di agrumi possono sostituire il vino, senza rinunciare al piacere dell’abbinamento.

  • Caffè siciliano: un espresso ristretto e intenso, servito bollente, regala un contrasto perfetto tra amaro e dolce.

Negli ultimi anni alcuni chef hanno reinterpretato la Sfincia proponendola con ripieni innovativi: creme alla ricotta, cioccolato, pistacchio o confetture locali. Tuttavia, la versione tradizionale, semplice e fragrante, resta insuperabile. È la sua essenzialità a renderla irresistibile: pochi ingredienti, nessuna pretesa, solo il piacere autentico della condivisione.

La Sfincia, dunque, non è soltanto un dolce fritto: è un frammento di identità siciliana, una pagina di storia scritta a più mani, una testimonianza di come il cibo possa essere al tempo stesso memoria, festa e legame sociale.

E quando, nelle sere d’inverno o durante le giornate di festa, una Sfincia ancora calda arriva sulla tavola, non c’è bisogno di parole: basta un morso per capire che ci si trova di fronte a qualcosa di autentico, nato dal cuore della Sicilia e destinato a rimanere nella memoria di chiunque la assaggi.


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Lo Sfratto di Pitigliano: storia, tradizione e sapori di un dolce unico


Lo Sfratto di Pitigliano non è soltanto un dolce della tradizione maremmana, ma un vero e proprio documento gastronomico che racchiude memoria, identità e resilienza culturale. Si tratta di una preparazione che nasce dall’incontro di popoli e religioni, che si è tramandata nei secoli come simbolo della comunità ebraica toscana e che ancora oggi racconta, attraverso il suo gusto intenso, una storia di dolore trasformata in speranza e condivisione. A prima vista appare come un cilindro dorato di pasta fragrante che cela al suo interno un ripieno avvolgente di noci, miele, scorze di agrumi e spezie, ma dietro quella semplicità si nasconde un universo di significati storici e sociali.

Il nome curioso di questo dolce ha origini lontane e non casuali. La parola “sfratto” evoca infatti un atto doloroso: il trasferimento forzato degli ebrei nei ghetti. Nel 1622, il Granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici emanò un editto che obbligava gli ebrei residenti nei borghi di Pitigliano, Sovana e Sorano ad abbandonare le proprie case per essere confinati nel ghetto di Pitigliano. Per intimare l’ordine, i messi battevano alle porte con un bastone, simbolo della coercizione e della perdita di libertà.

Un secolo più tardi, la comunità ebraica di Pitigliano decise di trasformare quel ricordo doloroso in un gesto di memoria e identità culturale. Nacque così il dolce chiamato Sfratto, dalla forma allungata che ricorda proprio un bastone, ma riempito con un cuore dolce e profumato: un modo per sublimare l’umiliazione in un prodotto che potesse unire tradizione e resilienza. Questa scelta è emblematica della capacità di trasformare il dolore in creatività, un tema ricorrente nella storia gastronomica ebraica.

La ricetta dello Sfratto di Pitigliano è profondamente legata alla terra di Maremma e alle abitudini alimentari dell’epoca. Il guscio esterno è realizzato con un impasto semplice a base di farina, uova, zucchero, olio o strutto e vino bianco, che viene steso e arrotolato attorno a un ripieno ricchissimo.

Il cuore del dolce è un insieme di ingredienti che simboleggiano l’abbondanza e la prosperità:

  • Miele, alimento sacro e ancestrale, dolcezza che avvolge e conserva.

  • Noci, simbolo di forza e fertilità, presenti in molte ricette contadine e festive.

  • Scorze di arancia e limone, che aggiungono freschezza e profumo.

  • Spezie come anice e noce moscata, richiami ai commerci mediterranei e alla tradizione ebraica.

La miscela, una volta amalgamata e racchiusa nel guscio dorato, sprigiona un profumo che invade le cucine e le feste tradizionali, diventando una presenza immancabile durante le celebrazioni del Capodanno ebraico (Rosh Hashanah) e delle ricorrenze locali.

La preparazione dello Sfratto di Pitigliano richiede cura e pazienza, ma restituisce un risultato che conquista chiunque lo assaggi.

Ingredienti per circa 4 dolci

  • 500 g di farina 00

  • 2 uova

  • 150 g di zucchero

  • 100 ml di vino bianco secco

  • 80 ml di olio extravergine d’oliva (o strutto, nella versione più antica)

  • un pizzico di sale

Per il ripieno:

  • 400 g di miele

  • 300 g di noci sgusciate

  • 50 g di scorze d’arancia candite

  • 1 cucchiaino di semi d’anice

  • una grattugiata di noce moscata

  • scorza grattugiata di un limone

Procedimento

  1. Preparare l’impasto: in una ciotola capiente setacciare la farina, unire le uova, lo zucchero, il vino bianco, l’olio e un pizzico di sale. Lavorare fino a ottenere un impasto liscio ed elastico, da far riposare coperto per circa 30 minuti.

  2. Preparare il ripieno: scaldare il miele a fuoco basso, unire le noci tritate grossolanamente, le scorze candite, i semi d’anice, la noce moscata e la scorza di limone. Mescolare finché il composto non diventa denso e aromatico, quindi lasciare raffreddare.

  3. Formare i cilindri: stendere l’impasto in rettangoli sottili, disporre al centro una parte del ripieno e arrotolare bene sigillando i bordi. Il risultato deve ricordare un bastone allungato.

  4. Cottura: disporre i cilindri su una teglia rivestita di carta forno e cuocere a 180 °C per circa 30-35 minuti, finché la superficie non appare dorata.

  5. Riposo: lo sfratto migliora se consumato il giorno successivo, quando i sapori si amalgamano perfettamente.

Il risultato finale è un dolce dal guscio friabile e un ripieno denso, profumato, che unisce dolcezza e speziatura in un equilibrio unico.

Lo Sfratto di Pitigliano è un dolce che si presta a degustazioni accompagnate da vini da dessert tipici della Toscana. Le sue note di miele e spezie trovano un’armonia perfetta con il Vin Santo o con l’Aleatico dell’Elba Passito, vini dolci e strutturati che ne esaltano la ricchezza aromatica. Per chi preferisce i rossi da meditazione, può essere abbinato a un Morellino di Scansano Riserva con qualche anno di affinamento, capace di bilanciare la dolcezza con una leggera tannicità.

In chiave moderna, lo sfratto può essere servito anche a fine pasto con un bicchierino di grappa morbida o di rum agricolo, che valorizzano la componente speziata e agrumata del ripieno. Interessante anche la possibilità di abbinarlo a un caffè espresso intenso, che ne pulisce il palato e ne esalta la persistenza.

Oggi lo Sfratto di Pitigliano è inserito tra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali (P.A.T.) della Toscana e continua a essere preparato sia nelle case delle famiglie ebraiche che nelle pasticcerie locali. A Pitigliano, soprannominata la “piccola Gerusalemme” per la storica presenza della comunità ebraica, il dolce rappresenta una testimonianza viva di integrazione e memoria. Nonostante la ricetta originale sia stata reinterpretata nel tempo, l’essenza resta invariata: raccontare attraverso il cibo una vicenda storica complessa, trasformandola in un messaggio di continuità e condivisione.

Ogni morso dello sfratto è dunque un viaggio nel passato, una celebrazione della memoria collettiva e della capacità di una comunità di reagire alle avversità con dignità e creatività.

Lo Sfratto di Pitigliano non è solo un dolce da gustare, ma un atto culturale da tramandare. Un dolce che parla di identità, resilienza e dialogo, capace di raccontare la storia di una comunità attraverso un involucro fragrante e un ripieno che profuma di miele, noci e spezie. Prepararlo e assaggiarlo significa non solo entrare in contatto con la tradizione gastronomica della Maremma, ma anche rendere omaggio alla memoria storica di Pitigliano e della sua comunità ebraica.



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Strucchi: i dolci segreti delle Valli del Natisone


Ci sono dolci che non nascono per impressionare con scenografie elaborate o con l’estetica impeccabile della pasticceria moderna, ma per raccontare storie. Gli Strucchi appartengono a questa categoria: piccoli scrigni di memoria, provenienti dalle Valli del Natisone in Friuli-Venezia Giulia, che racchiudono in sé l’essenza di una cucina fatta di famiglia, tradizione e comunità. Ogni boccone porta con sé il profumo delle feste contadine, la mano sapiente delle nonne, l’eco delle terre di confine.

Gli Strucchi, conosciuti anche con nomi dialettali come struchi, strucoli o struccoletti, hanno un’origine che si intreccia con quella di altri dolci della Mitteleuropa. Il termine stesso potrebbe derivare dal “strucolo de pomi”, la variante triestina dello strudel di mele, oppure avere legami con gli štruklji sloveni, dolci arrotolati che condividono con gli Strucchi la logica di racchiudere un ripieno speziato dentro un involucro di pasta. Questa ambiguità linguistica e gastronomica è in realtà una testimonianza preziosa: il Friuli è sempre stato una terra di passaggio, di incroci culturali, un mosaico dove influenze italiane, slovene e austriache si sono fuse nei secoli.

Le prime tracce scritte degli Strucchi non risalgono a epoche antiche, ma il loro legame con un altro dolce friulano molto più noto, la gubana, fa pensare a una genesi domestica e contadina. In effetti, gli Strucchi non sono altro che una sorta di gubana in miniatura: il ripieno è praticamente identico, ma la forma, piccola e maneggevole, li rende più pratici da condividere.

Uno degli aspetti più affascinanti degli Strucchi è la loro doppia anima, riflesso di una tradizione che si è adattata alle diverse disponibilità di ingredienti e agli usi familiari.

Gli Strucchi fritti sono quelli più conosciuti e diffusi. Si preparano con un impasto simile a quello della pasta frolla, sottile e friabile, che racchiude il ripieno. Una volta chiusi a fagottino, vengono immersi nell’olio bollente fino a diventare dorati e croccanti. Spolverati di zucchero, offrono al palato un gioco di contrasti irresistibile: la crosta friabile, il cuore umido e liquoroso, l’aroma della frutta secca che si sprigiona con calore.

Gli Strucchi lessi, meno noti al grande pubblico, rappresentano invece la versione più rustica, più vicina alla cucina contadina delle valli. L’impasto esterno, in questo caso, non è una frolla ma una pasta a base di patate, simile a quella degli gnocchi. Dopo la cottura in acqua bollente, i fagottini vengono conditi con burro fuso, zucchero e cannella. Ne risulta un dolce più morbido, avvolgente, quasi “consolatorio”, che restituisce in pieno l’atmosfera delle cucine di un tempo, dove semplicità e sostanza erano valori fondamentali.

Il vero protagonista degli Strucchi resta, senza dubbio, il ripieno. Ogni famiglia custodisce gelosamente la propria versione, ma gli ingredienti principali sono sorprendentemente costanti.

  • Noci e nocciole tritate grossolanamente, per regalare consistenza.

  • Pinoli tostati, che aggiungono una nota delicata.

  • Uvetta, ammorbidita in grappa o rum, che introduce dolcezza e profumo.

  • Zucchero e scorza di limone, per bilanciare gli aromi.

  • Grappa friulana, l’elemento che lega e caratterizza, simbolo stesso della terra d’origine.

A volte si aggiunge miele, fichi secchi, cacao o persino un pizzico di cannella, ma la struttura resta sempre la stessa: un connubio di frutta secca e liquore, in equilibrio tra forza e dolcezza. È un ripieno che parla di povertà trasformata in ricchezza, di ingredienti semplici che diventano festa quando lavorati con cura e condivisione.

Gli Strucchi hanno ottenuto il riconoscimento P.A.T. (Prodotto Agroalimentare Tradizionale), segno del loro legame con la cultura friulana. Pur non essendo mai diventati dolci da vetrina internazionale, come lo strudel o il tiramisù, restano una gemma autentica delle Valli del Natisone. Negli ultimi anni, grazie alla riscoperta delle radici gastronomiche, hanno conosciuto una nuova diffusione: botteghe locali e alcune pasticcerie di Udine e Trieste hanno iniziato a proporli, facendoli scoprire anche a un pubblico più vasto.

Preparare gli Strucchi in casa significa rivivere un rituale antico. Ecco una ricetta tradizionale nella versione fritta:

Ingredienti per l’impasto:

  • 300 g di farina 00

  • 100 g di burro

  • 100 g di zucchero

  • 2 uova

  • scorza di limone grattugiata

  • un pizzico di sale

Per il ripieno:

  • 150 g di noci

  • 100 g di nocciole

  • 50 g di pinoli

  • 80 g di uvetta

  • 2 cucchiai di zucchero

  • 1 cucchiaio di miele

  • 1 bicchierino di grappa friulana

  • scorza di limone

  • cannella (facoltativa)

Preparazione:

  1. Ammollare l’uvetta nella grappa.

  2. Tritare grossolanamente noci, nocciole e pinoli.

  3. Unire la frutta secca con l’uvetta scolata, aggiungere miele, zucchero, scorza di limone e un pizzico di cannella.

  4. Preparare l’impasto lavorando farina, burro, zucchero, uova e scorza di limone fino a ottenere una frolla omogenea.

  5. Stendere la pasta, ritagliare dei dischi e farcire con un cucchiaino di ripieno.

  6. Chiudere a mezzaluna e sigillare bene i bordi.

  7. Friggere in olio caldo finché dorati, poi scolare e cospargere di zucchero a velo.

Il risultato è un dolce fragrante e profumato, che riporta immediatamente ai profumi delle cucine friulane.

Come tutti i dolci della tradizione, gli Strucchi danno il meglio di sé se accompagnati con un vino del territorio.

  • Con gli Strucchi fritti, il Ramandolo DOCG, passito friulano dai sentori di miele e albicocca secca, offre un abbinamento perfetto.

  • Con gli Strucchi lessi, una Malvasia Istriana dolce o un Verduzzo Friulano si sposano splendidamente.

  • Per chi ama mantenere la nota liquorosa del ripieno, un bicchierino di grappa friulana è la scelta più autentica e diretta.

Gli Strucchi non sono semplicemente un dessert, ma un simbolo. Ogni fagottino è un tassello di storia, un messaggio di convivialità. Venivano preparati in grandi quantità e condivisi durante le feste, portando con sé non solo gusto, ma appartenenza.

Oggi rappresentano un invito: andare nelle Valli del Natisone, scoprire le piccole botteghe, parlare con chi ancora custodisce la tradizione. Mangiare uno Strucchi non significa solo concedersi un dolce, ma partecipare a una memoria collettiva, ritrovare il senso della cucina come legame e continuità.

In un’epoca di dolci globalizzati, standardizzati e spesso privati della loro anima, gli Strucchi restano un piccolo segreto friulano, da assaporare lentamente, lasciando che ogni morso racconti la sua valle, la sua gente e il suo passato.


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Strudel: il vortice di storia e sapori che attraversa i secoli


Lo strudel non è soltanto un dolce: è una narrazione culinaria che attraversa epoche, imperi e culture. Il suo nome, derivato dal tedesco Strudel, significa “vortice”, e descrive perfettamente la forma arrotolata della pasta che racchiude un ripieno ricco e profumato. Nella versione più conosciuta, quella di mele, pinoli, uvetta e cannella, lo strudel è diventato un simbolo della Mitteleuropa, trovando una dimora privilegiata nelle regioni alpine italiane, soprattutto in Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, dove oggi rappresenta un vero patrimonio gastronomico riconosciuto anche dal marchio P.A.T. (Prodotto Agroalimentare Tradizionale).

Le origini dello strudel affondano in radici sorprendentemente antiche. Testimonianze di dolci arrotolati e farciti compaiono già nell’VIII secolo a.C. tra gli Assiri, e successivamente nel III secolo a.C. nella Grecia antica. In quelle cucine si sperimentavano sottili sfoglie farcite con frutta secca, miele e spezie: preparazioni che, grazie alla Via della Seta e ai secolari scambi commerciali, si diffusero fino all’Anatolia e al Medio Oriente.

Proprio qui si sviluppò la tradizione della baklava, dolce a base di sottilissimi strati di pasta, frutta secca e miele, che seguì le conquiste ottomane nei Balcani. Dal XVI secolo, con l’espansione dell’impero di Solimano il Magnifico fino all’Ungheria, la ricetta della baklava incontrò le tradizioni locali e si trasformò gradualmente nello strudel. Quando, alla fine del XVII secolo, l’Ungheria entrò nell’Impero asburgico, la preparazione si diffuse nei territori austro-ungarici e, con essi, nelle regioni alpine italiane dopo il 1867.

È quindi un dolce che porta in sé la memoria di imperi e popoli, capace di raccontare con i suoi strati arrotolati un intreccio di culture.

Nelle regioni del Nord-Est italiano, lo strudel è oggi una delle espressioni più autentiche della cucina tradizionale. Ogni famiglia custodisce una propria ricetta, tramandata di generazione in generazione, con varianti che spaziano dalla pasta frolla alla pasta sfoglia, fino alla più sottile e delicata pasta da strudel tirata a mano, quasi trasparente.

Il ripieno classico resta quello di mele, uvetta, pinoli, zucchero e cannella, arricchito talvolta da pangrattato tostato nel burro o da un tocco di rum. Pellegrino Artusi, padre della gastronomia italiana moderna, descriveva lo strudel con ironia nel 1895, definendolo “brutto come una sanguisuga o un serpentaccio”, ma capace di conquistare il palato grazie al suo gusto inconfondibile.

Accanto alla versione di mele, esistono varianti con pere, albicocche, frutti di bosco e perfino interpretazioni salate con verdure, crauti o salumi, che testimoniano la versatilità del piatto.

La ricetta tradizionale

Ingredienti per la pasta da strudel:

  • 250 g di farina 00

  • 1 uovo

  • 2 cucchiai di olio di semi

  • 100 ml di acqua tiepida

  • un pizzico di sale

Ingredienti per il ripieno classico:

  • 1 kg di mele (preferibilmente Renette o Golden Delicious)

  • 80 g di uvetta sultanina

  • 50 g di pinoli

  • 80 g di zucchero semolato

  • 50 g di pangrattato

  • 50 g di burro

  • scorza grattugiata di 1 limone

  • cannella in polvere q.b.

  • 1 cucchiaio di rum (facoltativo)

Preparazione

  1. Preparare la pasta: impastare la farina con uovo, olio, acqua e sale fino a ottenere una consistenza liscia ed elastica. Coprire con un panno e lasciar riposare per almeno 30 minuti.

  2. Preparare il ripieno: ammollare l’uvetta in acqua tiepida (o rum). Sbucciare le mele e tagliarle a fettine sottili. In una padella sciogliere il burro e tostare leggermente il pangrattato, che servirà ad assorbire i succhi della frutta in cottura.

  3. Assemblare: stendere la pasta su un canovaccio infarinato fino a renderla sottilissima. Distribuire sopra il pangrattato tostato, quindi le mele, l’uvetta strizzata, i pinoli, lo zucchero, la scorza di limone e una spolverata di cannella.

  4. Arrotolare: aiutandosi con il canovaccio, arrotolare delicatamente l’impasto e sigillare bene i bordi. Trasferire lo strudel su una teglia foderata con carta da forno e spennellare la superficie con burro fuso.

  5. Cottura: infornare a 180°C per circa 40-45 minuti, fino a doratura. Lasciar intiepidire e spolverizzare con zucchero a velo.

Il risultato è un dolce profumato, dalla crosta croccante e con un ripieno morbido, equilibrato tra dolcezza e freschezza.

Lo strudel si abbina splendidamente con vini bianchi aromatici e freschi, capaci di esaltare la dolcezza della mela e la speziatura della cannella. Tra i migliori compagni di viaggio:

  • Gewürztraminer Alto Adige DOC (12-15 €): con il suo bouquet floreale e speziato è un connubio naturale.

  • Moscato d’Asti DOCG (8-12 €): le bollicine delicate e la dolcezza moderata lo rendono perfetto per chi ama un abbinamento più morbido.

  • Vin Santo del Chianti DOC (15-20 €): una scelta più intensa, che regala una fusione tra note ossidative e dolcezza del dessert.

  • Spumante Brut Metodo Classico (10-15 €): per chi preferisce un contrasto fresco e asciutto.

Lo strudel non è solo un dolce della tradizione alpina, ma un simbolo di contaminazione culturale e di viaggi che attraversano i secoli. Ogni fetta racconta una storia che parte dall’antica Mesopotamia, passa per le corti ottomane e arriva fino ai tavoli imbanditi delle famiglie italiane. È la dimostrazione che la cucina è sempre un dialogo tra popoli, capace di trasformare un semplice impasto e qualche mela in un patrimonio condiviso.


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Torta Setteveli: il capolavoro della pasticceria italiana che ha conquistato il mondo


Tra i dolci contemporanei che hanno segnato un’epoca nella pasticceria italiana, la Torta Setteveli occupa un posto di rilievo. Non parliamo di un dolce tramandato da secoli, ma di una creazione relativamente recente, nata dal genio di tre maestri pasticceri che, unendo tecnica, visione e rigore, hanno dato vita a un dessert capace di conquistare i palati più esigenti e di scrivere una pagina indelebile nella storia della gastronomia internazionale.

Questa torta, composta da strati multipli che alternano croccantezza, morbidezza e cremosità, non è soltanto un trionfo di gusto, ma rappresenta anche un perfetto esempio di equilibrio sensoriale. La sua raffinatezza si esprime attraverso l’uso di ingredienti di altissima qualità: nocciole del Piemonte, mandorle pugliesi, cioccolato del Madagascar, gianduia croccante ai cereali. Ogni elemento è pensato per integrarsi con gli altri e dare vita a un’esperienza gustativa complessa ma armoniosa.

La Setteveli vede la luce nel 1997 a Lione, in occasione della Coupe du Monde de la Pâtisserie, una delle competizioni più prestigiose del settore. A rappresentare l’Italia vi erano tre nomi destinati a diventare sinonimo di eccellenza: Luigi Biasetto (Padova), Cristian Beduschi (Belluno) e Gianluca Mannori (Prato).

Il trio decide di proporre un dolce che fosse innovativo non solo nella tecnica, ma anche nella concezione. L’idea era quella di creare una torta capace di celebrare la femminilità attraverso strati successivi che evocassero grazia, eleganza e forza. Da qui nasce il concetto delle “sette veli”: sette strati, ognuno con una consistenza e un ruolo ben preciso, che insieme raccontano una storia.

Il risultato è straordinario: l’Italia vince la medaglia d’oro, e la Torta Setteveli diventa da subito un punto di riferimento. Da allora, il dolce ha varcato i confini nazionali, diffondendosi non solo in Europa ma anche oltre oceano, e imponendosi come una delle creazioni più celebrate della pasticceria moderna.

La forza della Setteveli risiede nella sua struttura. Ogni strato ha una funzione specifica, e solo l’insieme restituisce la magia finale.

  • Base di pan di Spagna senza farina: realizzata con mandorle pugliesi, dona solidità e carattere.

  • Mousse di nocciole del Piemonte: cremosa e avvolgente, aggiunge una nota calda e vellutata.

  • Cioccolato del Madagascar: scelto per la sua intensità aromatica, porta profondità e persistenza.

  • Croccante di gianduia e cereali: regala il contrasto necessario, evitando che la torta risulti monotona.

  • Sfoglie sottili di cioccolato: contribuiscono all’eleganza estetica e alla precisione tattile del morso.

Questo equilibrio tra morbido e croccante, dolce e amaro, rende la Setteveli un dessert che non stanca mai.

Riprodurre fedelmente la Torta Setteveli è complesso, anche perché la ricetta originale è protetta e custodita gelosamente dai suoi creatori. Tuttavia, molte pasticcerie e chef hanno elaborato versioni che, pur non essendo identiche, ne rispettano lo spirito.

Ingredienti principali

  • 200 g di farina di mandorle

  • 150 g di zucchero

  • 4 uova

  • 200 g di cioccolato fondente di alta qualità (70%)

  • 100 g di gianduia

  • 50 g di cereali soffiati

  • 200 g di nocciole pralinate

  • 500 ml di panna fresca

  • 8 g di gelatina in fogli

  • 50 g di burro

Preparazione passo-passo

  1. Pan di Spagna alle mandorle: montare uova e zucchero fino a ottenere un composto spumoso. Incorporare la farina di mandorle. Cuocere in forno a 180°C per circa 20 minuti.

  2. Croccante gianduia e cereali: fondere gianduia e burro, aggiungere i cereali soffiati e stendere uno strato sottile che fungerà da base croccante.

  3. Mousse al cioccolato: sciogliere il cioccolato fondente, unire i fogli di gelatina ammorbiditi e incorporare delicatamente la panna montata.

  4. Bavarese alle nocciole pralinate: ridurre le nocciole pralinate in pasta, unirle a una crema inglese di base e alleggerire con panna montata.

  5. Assemblaggio: alternare strati di pan di Spagna, croccante, mousse e bavarese, completando con sottili veli di cioccolato temperato.

  6. Decorazione: glassare con cioccolato fondente lucido e rifinire con placche sottili per esaltare l’aspetto geometrico del dolce.

Il risultato è un dessert elegante, stratificato, che richiede precisione e pazienza, ma che regala immense soddisfazioni.

Oltre al gusto, la Torta Setteveli rappresenta un ponte tra le eccellenze italiane. Ogni ingrediente, infatti, porta con sé una storia: le mandorle del Sud, le nocciole del Piemonte, la maestria cioccolatiera del Nord. È una sintesi di territori e tradizioni, uniti da una tecnica che guarda al futuro.

Un dolce così intenso e complesso merita abbinamenti accurati.

  • Vini da dessert: l’Alchermes fiorentino o un Marsala superiore dolce esaltano le note calde di cioccolato e nocciola.

  • Passiti: un Passito di Pantelleria con le sue sfumature di albicocca e datteri regala contrasti intriganti.

  • Spumanti dolci: l’Asti Spumante o una Malvasia frizzante bilanciano la ricchezza della torta con la freschezza delle bollicine.

  • Caffè e distillati: per chi preferisce chiudere il pasto con carattere, un espresso intenso o un bicchiere di rum invecchiato dialogano perfettamente con la complessità del cioccolato.

La Torta Setteveli non è solo un dolce, ma una lezione di pasticceria contemporanea. Dimostra come la creatività, unita a ingredienti di qualità e a una tecnica impeccabile, possa dare vita a un dessert che diventa parte della memoria collettiva. Ogni morso è un viaggio sensoriale che unisce tradizione e modernità, Italia e mondo, rigore tecnico e pura emozione.

Prepararla in casa è una sfida, ma anche tentare una versione semplificata permette di comprendere meglio la maestria dei suoi ideatori. Per chi non se la sente, resta l’opzione di affidarsi alle migliori pasticcerie italiane che ancora oggi la propongono, celebrando un dolce che ha fatto scuola.

La Torta Setteveli è molto più di una torta: è un simbolo di quanto la pasticceria italiana sappia guardare avanti senza dimenticare le proprie radici.



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Tenerina: il cioccolato che racconta Ferrara


La Tenerina è più di una semplice torta al cioccolato: è un simbolo della tradizione dolciaria ferrarese, un capolavoro di consistenze contrastanti che unisce la croccantezza superficiale a un cuore morbido e cremoso. Questo dolce, noto anche come torta regina del Montenegro o Montenegrina, ha origine a Ferrara ed è riconosciuto come Prodotto Agroalimentare Tradizionale (P.A.T.) italiano. La sua storia, le tecniche di preparazione e la combinazione degli ingredienti ne fanno un esempio unico di pasticceria regionale, apprezzato non solo per il gusto ma anche per la raffinata semplicità della sua struttura.

La Tenerina deve il suo nome dialettale “Torta Tacolenta” al termine ferrarese “taclenta”, che significa appiccicosa, un riferimento alla consistenza interna del dolce che si scioglie in bocca. La torta venne battezzata anche in onore di Elena Petrovich del Montenegro, moglie di Vittorio Emanuele III, acquisendo così il titolo di “torta regina del Montenegro”. La nascita della Tenerina si colloca nella tradizione dolciaria del Ferrarese, dove il cioccolato aveva cominciato a diffondersi a partire dal XVII secolo grazie agli scambi commerciali con il Nord Europa e le città portuali italiane.

Il dolce si distingue per la semplicità apparente degli ingredienti, ma la tecnica di assemblaggio è ciò che ne determina l’armonia finale: una crosticina leggera e friabile che racchiude un interno morbido, fondente, cremoso, capace di evocare l’eleganza e la raffinatezza della pasticceria ferrarese. La Tenerina si inserisce in un contesto storico di evoluzione dei dolci a base di cioccolato, quando la lavorazione del cacao non era ancora industrializzata e la sua combinazione con burro e uova richiedeva grande attenzione e maestria.

Oggi, la Tenerina non è soltanto un dolce locale, ma un simbolo della cucina di Ferrara che viene celebrato nelle pasticcerie e nei laboratori artigianali, con varianti che mantengono la ricetta originale ma permettono di esplorare nuovi abbinamenti e presentazioni.

La ricetta tradizionale della Tenerina prevede pochi ingredienti selezionati, ciascuno fondamentale per la riuscita del dolce:

  • Cioccolato fondente 200 g

  • Burro 100 g

  • Uova 3 medie

  • Zucchero 150 g

  • Farina 3 cucchiai rasi

  • Zucchero a velo qb per decorazione

La qualità del cioccolato è determinante: un cioccolato fondente di buona origine e con una percentuale di cacao elevata conferirà intensità e profondità aromatica al dolce. Il burro, morbido ma non fuso eccessivamente, contribuisce alla struttura cremosa. La quantità minima di farina è sufficiente a dare compattezza senza compromettere la leggerezza del cuore.

La preparazione richiede attenzione ai dettagli, in particolare nel trattamento del cioccolato e degli albumi. Il procedimento classico è il seguente:

  1. Fusione del cioccolato: tagliare il cioccolato fondente a pezzi e scioglierlo a bagnomaria, mescolando frequentemente per ottenere una crema omogenea. Aggiungere il burro e continuare a mescolare fino a incorporazione completa, quindi lasciare intiepidire.

  2. Preparazione dei tuorli: separare i tuorli dagli albumi. Montare i tuorli con lo zucchero fino a ottenere una crema chiara e spumosa. Incorporare la farina setacciata e successivamente la crema di cioccolato intiepidita, amalgamando con cura.

  3. Montaggio degli albumi: montare gli albumi a neve ferma e incorporarli delicatamente al composto di cioccolato e tuorli. Il movimento deve essere dal basso verso l’alto, con spatola o cucchiaio in legno, per non smontare gli albumi e mantenere la leggerezza del dolce.

  4. Preparazione della teglia: foderare una tortiera di 24-26 cm con carta forno bagnata per farla aderire meglio. Versare il composto uniformemente e livellare con una spatola.

  5. Cottura: infornare a 180°C per 20-25 minuti in forno già caldo. La superficie deve formare una crosticina sottile mentre il cuore rimane morbido e leggermente tremolante. È fondamentale non prolungare la cottura per evitare che la torta diventi secca.

  6. Raffreddamento: una volta sfornata, lasciare raffreddare la torta nella teglia e, se desiderato, spolverare con zucchero a velo. La Tenerina si conserva a temperatura ambiente per 3-4 giorni.

Il segreto della Tenerina sta nell’equilibrio tra consistenza esterna e cuore interno. La crosticina superiore offre un leggero contrasto con il cioccolato morbido e cremoso al centro, un’esperienza sensoriale che esalta l’aroma del cacao. La ridotta presenza di farina permette al cioccolato di dominare senza essere eccessivamente denso, mentre il burro garantisce scioglievolezza e rotondità al gusto.

La semplicità degli ingredienti e la tecnica di montaggio degli albumi sono elementi essenziali: un montaggio troppo rapido o una cottura prolungata comprometterebbero l’effetto desiderato, trasformando il dolce in un blocco pesante e asciutto. La Tenerina richiede dunque attenzione, pazienza e precisione, qualità che riflettono la tradizione artigianale ferrarese.

Nonostante la ricetta tradizionale rimanga il punto di riferimento, esistono varianti moderne che arricchiscono il gusto senza stravolgere la struttura originale: l’aggiunta di aromi come vaniglia o arancia, l’inserimento di un ripieno di crema leggera al caffè, o una spolverata di cacao amaro al posto dello zucchero a velo. Alcune pasticcerie propongono versioni con frutti di bosco caldi serviti a lato, creando un contrasto tra dolcezza e acidità.

Esiste anche la versione al cioccolato bianco, che richiede lievi modifiche: la riduzione dello zucchero e un controllo attento della cottura sono necessari per evitare che il cuore perda morbidezza. Nonostante queste variazioni, il principio fondamentale resta invariato: mantenere l’armonia tra crosticina esterna e cuore tenero.

La Tenerina si presta a diversi abbinamenti, capaci di valorizzarne la ricchezza senza sovrastarla. Un caffè espresso intenso e corposo crea un contrasto aromatico piacevole, evidenziando la profondità del cioccolato. Chi preferisce il tè può optare per un Earl Grey o un tè nero aromatizzato agli agrumi.

Tra i vini, una scelta eccellente è un passito leggermente aromatico, come il Malvasia dolce o un Vin Santo leggero, che accompagna la morbidezza del dolce senza renderlo stucchevole. Per chi ama il gelato, un sorbetto al lampone o alla frutta rossa bilancia la ricchezza della crema di cioccolato e crea un abbinamento fresco e armonioso.

Oltre alla bontà, la Tenerina rappresenta un legame culturale con Ferrara e la sua storia. Ogni fetta racconta un’epoca in cui il cioccolato era un ingrediente prezioso e la pasticceria un’arte di precisione. La torta è diventata simbolo di ospitalità e convivialità: prepararla significa prendersi cura degli ospiti, offrendo un’esperienza che coinvolge vista, olfatto e gusto.

Nel panorama moderno, la Tenerina ha conquistato anche spazi internazionali grazie all’interesse per i dolci regionali italiani. Laboratori e pasticcerie al di fuori di Ferrara riproducono la ricetta tradizionale, spesso con piccoli adattamenti per il clima o la disponibilità degli ingredienti. Tuttavia, la versione originale mantiene un fascino inalterato: il cuore morbido che si scioglie e la crosticina leggera sono caratteristiche difficili da replicare perfettamente senza attenzione ai dettagli.

La Tenerina non è soltanto un dolce al cioccolato; è l’espressione di una cultura regionale che unisce storia, tecnica e gusto. La sua preparazione richiede attenzione e maestria, ma il risultato ripaga ogni sforzo: un equilibrio perfetto tra consistenze, un gusto intenso e avvolgente, una tradizione che attraversa i secoli e arriva intatta fino a noi.

Assaporare una fetta di Tenerina significa percorrere un viaggio nel tempo, dal Ferrarese di inizio Novecento fino alle cucine moderne, sperimentando un legame autentico con la storia della pasticceria italiana. È un dolce che parla di eleganza discreta, di sapori decisi e di un’arte che ha saputo resistere alla banalizzazione industriale, rimanendo fedele alle sue origini.


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Cheesecake: il viaggio di un dolce che ha attraversato i secoli


Se c’è un dolce che più di ogni altro ha saputo viaggiare attraverso epoche, culture e continenti, adattandosi e trasformandosi senza mai perdere la sua essenza, questo è la cheesecake. Un dessert che affonda le radici nella Grecia antica, passa per la Roma repubblicana, attraversa l’Europa medioevale e approda infine in America, dove trova la consacrazione definitiva. Oggi, la cheesecake non è più soltanto un dolce: è un linguaggio universale della pasticceria, declinato in mille forme, dal Giappone agli Stati Uniti, dall’India al Sudafrica, fino ai moderni laboratori artigianali italiani.

Dietro la sua apparente semplicità – una base croccante che regge una crema morbida e vellutata – si nasconde una storia millenaria che parla di scambi culturali, contaminazioni gastronomiche e continua reinvenzione. La cheesecake è un piatto di memoria collettiva: ogni versione racconta il gusto di un popolo, il clima di un’epoca, la disponibilità degli ingredienti.

Il primo riferimento letterario alla cheesecake si deve al poeta Callimaco, che attribuì a Egimio, autore greco, un trattato sull’arte di preparare torte al formaggio. Non era ancora la cheesecake che conosciamo oggi, ma un dolce chiamato plakous, fatto di formaggio fresco e miele. Secondo le cronache, durante i primi Giochi Olimpici del 776 a.C., agli atleti di Delo veniva offerto un dessert nutriente a base di formaggio di pecora e miele: energia pura in una forma dolce e cremosa.

I Romani, eredi della cultura greca, trasformarono quel dolce nella placenta, descritta da Catone nel De Agri Cultura: due dischi di pasta farciti con formaggio e miele, aromatizzati con alloro. Sempre Catone menziona il savillum, una preparazione di formaggio, miele e farina, cotta al forno e cosparsa di semi di papavero. È in queste ricette che si intravede l’antenata diretta della cheesecake moderna.

Con il Medioevo, la diffusione del formaggio fresco in Europa permise lo sviluppo di varianti regionali. In Germania nacque il Käsekuchen, con base di pasta frolla e ripieno di quark. In Italia, la ricotta divenne protagonista di torte dolci profumate al limone o allo zafferano, specialmente in Sicilia e Sardegna. In Francia, la tarte au fromage blanc puntava sulla leggerezza, mentre nei Paesi Bassi il kwarktaart celebrava la freschezza del formaggio quark senza bisogno di cottura.

Il salto oltreoceano cambiò tutto. Negli Stati Uniti, la cheesecake trovò la sua patria definitiva grazie all’introduzione, a fine Ottocento, della crema di formaggio industriale. Nel 1872, un produttore di latticini di New York perfezionò il cream cheese, rendendolo facilmente lavorabile e perfetto per dolci di grande consistenza. Da lì nacque la celebre New York Cheesecake, cotta lentamente, ricca, densa e vellutata, simbolo della pasticceria americana.

Oggi, esistono due grandi famiglie di cheesecake: quella cotta e quella fredda. La prima si basa su una lenta cottura in forno, che conferisce al ripieno compattezza e profondità di sapore. La seconda, più diffusa in Europa e Australia, utilizza la gelatina o l’amido di mais per stabilizzare la crema, mantenendola fresca e leggera.

Le varianti nazionali raccontano storie diverse: in Giappone la cheesecake assume la consistenza di un soufflé, soffice come una nuvola; nelle Filippine diventa viola grazie all’ube, l’igname tipico dell’arcipelago; in Sudafrica si prepara con panna e liquore Amarula; in Polonia prende il nome di sernik e si prepara con twaróg; in India, nello stato di Orissa, la chhena poda cuoce lentamente fino a caramellare la superficie.

La ricetta della New York Cheesecake

Fra tutte le varianti, quella di New York rimane la più celebrata. Proponiamo qui una versione classica, fedele alle origini, perfetta per una torta alta, cremosa e dalla superficie liscia.

Ingredienti (per una tortiera da 24 cm):

  • 250 g di biscotti Digestive

  • 120 g di burro fuso

  • 900 g di formaggio cremoso tipo Philadelphia

  • 200 g di zucchero semolato

  • 200 ml di panna fresca

  • 3 uova intere + 1 tuorlo

  • 1 cucchiaio di amido di mais

  • 1 cucchiaio di succo di limone

  • 1 cucchiaino di estratto di vaniglia

  • un pizzico di sale

Per il topping (facoltativo):

  • 200 ml di panna acida

  • 2 cucchiai di zucchero a velo

Preparazione passo-passo

  1. Base: tritare finemente i biscotti e mescolarli con il burro fuso. Compattare il composto sul fondo della tortiera foderata con carta forno, premendo bene con il dorso di un cucchiaio. Riporre in frigorifero per almeno 30 minuti.

  2. Crema: montare leggermente il formaggio cremoso con lo zucchero, senza incorporare troppa aria. Aggiungere la panna, le uova una alla volta, il tuorlo, l’amido, il succo di limone, la vaniglia e il sale. Mescolare fino a ottenere una crema liscia.

  3. Cottura: versare la crema sulla base e livellare. Cuocere in forno preriscaldato a 160°C per circa 70 minuti, preferibilmente a bagnomaria, per mantenere l’umidità e ridurre le crepe in superficie. La cheesecake deve risultare compatta ai bordi e leggermente tremolante al centro.

  4. Riposo: spegnere il forno e lasciare raffreddare la torta all’interno con lo sportello socchiuso. Una volta fredda, riporre in frigorifero per almeno 6 ore, meglio tutta la notte.

  5. Topping: mescolare la panna acida con lo zucchero a velo e spalmarla sulla superficie prima di servire.

Il risultato sarà una torta alta, dal gusto intenso, dove la dolcezza del formaggio incontra la leggera acidità della panna acida e la croccantezza della base di biscotto. 

La cheesecake si presta a infinite combinazioni, ma la sua ricchezza richiede contrasti ben calibrati. Una fetta di New York Cheesecake si accompagna perfettamente a un vino dolce ma non stucchevole: un Moscato d’Asti per chi ama le bollicine leggere, oppure un Passito di Pantelleria per chi preferisce note più complesse di miele e frutta secca.

Chi non vuole alcol può optare per un tè verde giapponese, il matcha, che con il suo retrogusto erbaceo equilibra la cremosità del dolce.

La cheesecake è un esempio raro di piatto capace di mantenere un’identità universale pur trasformandosi a seconda del luogo. È allo stesso tempo un dolce familiare e cosmopolita, che unisce passato e presente. Non importa che sia preparata con ricotta, quark, mascarpone o cream cheese: in ogni sua versione, conserva quel legame originario con l’idea di nutrimento e piacere che aveva incantato atleti e imperatori.

Oggi, che si scelga la leggerezza di una cheesecake fredda al limone o la sontuosità di una New York cotta al forno, il gesto di tagliare una fetta e affondare la forchetta nella crema resta immutabile. È un atto semplice e rituale, che racchiude millenni di storia in un morso.

La cheesecake non è solo un dolce: è un ponte tra culture, un testimone silenzioso della capacità dell’uomo di reinventare tradizioni e di adattarle al proprio tempo. In ogni variante c’è la voce di un popolo, e in ogni fetta c’è un frammento di storia.


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Barmbrack: il pane dolce irlandese che racconta il futuro


Il Barmbrack, conosciuto anche come báirín breac in gaelico, non è soltanto un pane dolce irlandese, ma un frammento di storia popolare, un ponte che collega la tradizione contadina con il folklore e con il senso di comunità che caratterizza le celebrazioni dell’isola. Dietro la sua forma semplice, una pagnotta rotonda arricchita con uvetta e frutta secca, si nasconde un rituale che ha accompagnato generazioni di famiglie durante la festa di Halloween, quando il pane non era solo cibo, ma un presagio del destino.

Parlare del Barmbrack significa esplorare un pezzo autentico della cultura irlandese, capace di sopravvivere al tempo e di resistere alla globalizzazione gastronomica. Se oggi è ancora presente nelle tavole irlandesi, e persino sugli scaffali dei supermercati, lo si deve alla forza evocativa delle sue leggende e alla sua capacità di unire sapore e mistero in un’unica esperienza.

Il termine deriva dall’unione di due parole: “barm”, che in inglese antico indicava il lievito ricavato dalla fermentazione della birra, e “brack”, traduzione dell’irlandese breac, cioè “macchiato”, in riferimento ai puntini scuri delle uvette sparse nell’impasto. Si tratta quindi di un “pane macchiato dal lievito”, un nome che racchiude sia l’essenza del prodotto sia le sue radici rurali.

Le prime testimonianze risalgono al Medioevo, quando i contadini irlandesi producevano pani arricchiti con frutta secca nei periodi di festa, una consuetudine comune a molte culture europee. Tuttavia, in Irlanda questo pane acquisì un ruolo unico, legato al calendario agricolo e alle celebrazioni di Samhain, la festa celtica che segnava la fine del raccolto e l’inizio dell’inverno. Con il passare del tempo, la festa di Samhain si fuse con le celebrazioni cristiane di Ognissanti e Halloween, ma il Barmbrack mantenne il suo significato profetico.

La tradizione più suggestiva era quella di inserire piccoli oggetti all’interno dell’impasto: un anello, una moneta, un pezzo di stoffa, un bastoncino o un pisello. Ognuno di essi aveva un valore simbolico, e il fortunato (o sfortunato) che lo trovava nel proprio pezzo riceveva un presagio per il futuro. L’anello era segno di matrimonio imminente, la moneta di prosperità, il pezzo di stoffa di difficoltà economiche, il bastoncino di litigi familiari, mentre il pisello presagiva un altro anno da single. Col tempo, questa pratica si è semplificata: oggi si utilizza quasi esclusivamente l’anello, mantenendo viva la dimensione ludica ma riducendo il rischio di sorprese meno gradite.

Nonostante la modernità, il Barmbrack conserva il suo ruolo di dolce stagionale, spesso venduto già confezionato con un piccolo anello inserito all’interno. Eppure, il vero fascino rimane legato alle preparazioni casalinghe, dove il gesto di impastare, attendere la lievitazione e condividere la pagnotta diventa un rito collettivo, un’eredità che attraversa i secoli.

Gli ingredienti del Barmbrack riflettono la semplicità della cucina tradizionale irlandese, che valorizza ciò che la terra e il commercio rendevano disponibile:

  • Farina bianca: la base dell’impasto, arricchito spesso da un lievito naturale o dal barm di birra.

  • Frutta secca: soprattutto uva passa e uva sultanina, immerse in tè caldo o whiskey per ammorbidirsi e rilasciare il loro aroma.

  • Zucchero e spezie: cannella, noce moscata o chiodi di garofano, per dare un tocco caldo e avvolgente.

  • Burro e uova: che rendono il pane più ricco e morbido, a metà strada tra un pane e una torta.

  • Tè o whiskey: un ingrediente distintivo che aggiunge profondità di gusto e collega la ricetta alle abitudini quotidiane della popolazione irlandese.

La preparazione del Barmbrack richiede tempo e pazienza, come ogni pane che porta con sé una tradizione di attesa e condivisione.

  1. Ammollo della frutta
    La sera prima si mette la frutta secca (uva passa e sultanina) a bagno in tè nero forte o, per una versione più intensa, in whiskey. Questo passaggio non è solo pratico: è il segreto che conferisce al Barmbrack il suo sapore inconfondibile e la sua morbidezza.

  2. Impasto
    Si mescola la farina con zucchero, spezie e lievito, aggiungendo poi burro morbido, uova e infine la frutta ammollata con il liquido rimasto. L’impasto deve risultare denso ma lavorabile, pronto a riposare.

  3. Lievitazione
    Dopo un’ora circa di lievitazione, l’impasto viene trasferito in uno stampo rotondo o ovale e lasciato a crescere ancora. È in questa fase che, secondo la tradizione, si inseriscono i piccoli oggetti simbolici, avvolti in carta da forno per proteggerli.

  4. Cottura
    Il pane si cuoce in forno preriscaldato a 180°C per circa un’ora. All’uscita, la superficie dorata viene spesso spennellata con miele o zucchero sciolto in acqua, per un aspetto lucido e invitante.

Il risultato è una pagnotta densa, leggermente dolce, arricchita dal profumo del tè e dal sapore robusto della frutta secca.

Il Barmbrack si gusta al meglio accompagnato da bevande calde o da liquori che ne esaltino la ricchezza aromatica.

  • Tè nero irlandese: il compagno naturale, soprattutto servito con una nuvola di latte, che ne equilibra la dolcezza.

  • Whiskey irlandese: per un assaggio più deciso, in grado di richiamare l’aroma dell’ammollo della frutta.

  • Burro salato: una tradizione rustica è quella di servire fette spesse di Barmbrack leggermente tostate e spalmate con burro, un contrasto che bilancia perfettamente il dolce con il sapido.

  • Formaggi a pasta molle: come un buon brie o camembert, che creano un connubio sorprendente tra dolcezza e cremosità.

Oggi il Barmbrack continua a essere venduto in Irlanda soprattutto nei periodi vicini a Halloween, ma la sua popolarità si è diffusa anche nelle comunità irlandesi sparse per il mondo. Nonostante la semplificazione delle tradizioni, rimane un simbolo della convivialità stagionale e un ricordo gustoso per chiunque abbia radici nell’isola verde.

Ogni morso racconta una storia: quella di un popolo che trasformava un semplice pane in un messaggio del destino, e quella di famiglie riunite attorno a un tavolo, in attesa di scoprire quale sorpresa avrebbe riservato la sorte.


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Banbury Cake: il dolce inglese che ha attraversato i secoli


Ci sono ricette che si limitano a soddisfare il palato e ricette che invece raccontano una storia. Le Banbury cakes appartengono senza dubbio alla seconda categoria: piccoli scrigni di pasta sfoglia dorata che racchiudono un cuore speziato e fruttato, testimonianza di un’Inghilterra rinascimentale che ha saputo trasformare una semplice preparazione da forno in un simbolo culturale.

Originarie della cittadina di Banbury, nell’Oxfordshire, queste tortine hanno percorso più di quattro secoli di storia gastronomica, passando dalle botteghe locali alle tavole reali, fino a diventare un dolce da tè conosciuto in tutto il Regno Unito e oltre i confini nazionali.

Oggi vi porterò a scoprire le origini di questo dolce, la sua diffusione nel tempo e, naturalmente, come prepararlo a casa seguendo una ricetta fedele alla tradizione ma facilmente riproducibile.

La leggenda delle Banbury cakes comincia nel 1586, quando Edward Welchman, panettiere in Parsons Street, ideò questa preparazione destinata a durare nei secoli. All’epoca erano ben diverse da quelle che conosciamo oggi: più grandi, più rustiche e spesso preparate con impasti meno raffinati. La ricetta rimase a lungo un segreto custodito gelosamente nella cittadina, una sorta di tesoro gastronomico tramandato di generazione in generazione.

La prima testimonianza scritta risale al 1615, quando Gervase Markham, scrittore inglese, ne riportò una versione nel suo manuale culinario The English Huswife. Da allora, le Banbury cakes iniziarono a comparire nei ricettari inglesi, adattandosi nel tempo a nuovi gusti e tecniche di lavorazione.

La loro fama raggiunse un punto culminante nell’Ottocento, quando furono apprezzate persino dalla Regina Vittoria, che le consumava durante i suoi viaggi da Osborne House al castello di Balmoral. Un dolce che quindi non si limitava alle case popolari, ma che trovava posto anche nelle carrozze reali.

Con l’avvento della rivoluzione industriale e delle ferrovie, le Banbury cakes cominciarono a circolare ben oltre i confini dell’Oxfordshire. Venivano vendute nei punti di ristoro delle stazioni, spesso accompagnate da pork pies, e presto iniziarono a viaggiare in cesti di vimini verso le colonie britanniche, dall’Australia alle Indie orientali, fino all’America.

Ciò che rende particolare la Banbury cake non è soltanto il suo sapore, ma anche il significato culturale che porta con sé. È un dolce che racconta l’Inghilterra dell’epoca elisabettiana, il commercio delle spezie, la curiosità per sapori esotici come il rum e l’acqua di rose, che si univano agli ingredienti locali come burro e zucchero di canna.

Ogni morso racchiude quindi non solo il gusto delle spezie, ma anche il profumo di un’epoca in cui le navi della corona portavano nuove materie prime dall’altra parte del mondo. Non stupisce che sia diventato uno dei dolci preferiti per l’ora del tè: la combinazione tra dolcezza e spezie accompagna perfettamente la bevanda calda più amata dagli inglesi.

La ricetta tradizionale delle Banbury cakes

Ingredienti (per circa 8-10 pezzi)

  • Pasta sfoglia: 500 g (potete prepararla in casa o utilizzare una versione già pronta di ottima qualità)

  • Burro: 50 g

  • Zucchero di canna: 100 g

  • Uvetta o ribes secchi: 150 g

  • Canditi di scorza d’arancia e limone: 50 g

  • Rum: 2 cucchiai

  • Acqua di rose: 1 cucchiaio

  • Noce moscata: ½ cucchiaino

  • Cannella (facoltativa, ma spesso usata nelle versioni moderne): ½ cucchiaino

  • Uovo: 1, per spennellare

  • Zucchero semolato: q.b., per decorare la superficie

Preparazione passo dopo passo

  1. Preparare il ripieno
    In una ciotola, unite l’uvetta o i ribes secchi con i canditi tritati finemente. Aggiungete lo zucchero di canna, il burro morbido, il rum, l’acqua di rose e le spezie (noce moscata e, se gradite, un pizzico di cannella). Mescolate con cura fino a ottenere un composto umido e aromatico, che diventerà il cuore della vostra Banbury cake.

  2. Stendere la pasta sfoglia
    Se avete scelto di prepararla in casa, assicuratevi che sia ben fredda e stendetela su un piano leggermente infarinato fino a ottenere uno spessore di circa 3-4 millimetri. In caso contrario, aprite con delicatezza la sfoglia pronta.

  3. Formare le tortine
    Con un coppapasta o semplicemente con un coltello, ricavate dei cerchi di circa 10 cm di diametro. Al centro di ciascun disco disponete un cucchiaio abbondante di ripieno. Richiudete la sfoglia sigillandola accuratamente, quindi appiattite leggermente il fagottino con il palmo della mano per dargli la tipica forma ovale.

  4. Decorazione e incisioni
    Disponete le tortine su una teglia rivestita di carta forno. Con un coltellino affilato incidete la superficie con 2-3 tagli paralleli, che permetteranno al vapore di uscire durante la cottura. Spennellate con l’uovo sbattuto e cospargete con un po’ di zucchero semolato.

  5. Cottura
    Infornate a 200°C (forno statico) per 20-25 minuti, finché le Banbury cakes non saranno gonfie e ben dorate. Lasciatele raffreddare leggermente prima di gustarle.

Consigli per la riuscita perfetta

  • Il ripieno può essere preparato in anticipo e lasciato riposare qualche ora: i sapori si amalgameranno meglio.

  • Se volete un gusto più deciso, potete sostituire parte del rum con brandy.

  • Le incisioni in superficie sono fondamentali: oltre a un aspetto tradizionale, permettono una cottura uniforme.

Non c’è dubbio: il compagno ideale delle Banbury cakes è il tè nero inglese, magari un Earl Grey o un Darjeeling, capace di esaltare le note speziate e fruttate del ripieno.

Chi preferisce il caffè troverà un ottimo abbinamento con un espresso non troppo intenso, che bilanci la dolcezza senza coprire le sfumature aromatiche.

Per un tocco più insolito, le Banbury cakes possono essere accompagnate anche da un vino da dessert come il Porto tawny o uno Sherry ambrato: entrambi sposano bene la frutta secca e le spezie del ripieno.

Le Banbury cakes non sono solo un dolce: rappresentano un ponte tra passato e presente, tra la cucina domestica e la storia della Gran Bretagna. Prepararle oggi significa rievocare secoli di tradizioni, viaggi e tavole imbandite, ma anche regalarsi un momento di autentico piacere.

La prossima volta che cercate un dolce per accompagnare il tè del pomeriggio, ricordatevi di questo tesoro dell’Oxfordshire: una sfoglia fragrante, un cuore speziato e fruttato, e una storia che ha attraversato oceani e generazioni.

Chiudete gli occhi al primo morso e immaginate di essere su un treno vittoriano, una scatola di vimini accanto, diretto verso la campagna inglese. Questo è il viaggio che una semplice tortina può regalarvi.


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Marillenknödel: il dolce che racconta l’anima dell’Austria


Ci sono piatti che non sono soltanto una ricetta, ma veri e propri frammenti di cultura condensati in un boccone. I Marillenknödel, gli gnocchi dolci ripieni di albicocca, appartengono a questa categoria. Originari dell’Austria e diffusi in tutta l’Europa centrale, sono un dolce che racchiude la memoria dei frutteti di albicocche della Wachau e della Val Venosta, le case contadine dove la cucina era un atto di famiglia e convivialità, e persino le sale da concerto di Vienna, perché Gustav Mahler ne andava letteralmente ghiotto. Preparare un Marillenknödel non significa solo cucinare un dolce: è un rito che lega terra, stagioni e tradizione.

Il termine Marille è la parola austriaca per albicocca, un frutto che nelle zone lungo il Danubio trova terreno fertile per sviluppare un gusto unico, succoso e intenso. Non sorprende che proprio da lì sia nata l’idea di racchiuderle in un impasto morbido, bollirle e ricoprirle con pangrattato dorato e zucchero.

La ricetta, che oggi possiamo trovare nei ristoranti e pasticcerie di Vienna, ha radici casalinghe. Era un dolce semplice, creato per valorizzare la frutta matura di stagione. Le varianti non mancano: in Boemia e Moravia lo stesso concetto viene applicato alle susine, dando vita agli Zwetschkenknödel. A Trieste, crocevia di culture e commerci, la tradizione ha trovato un nuovo equilibrio tra sapori mitteleuropei e mediterranei.

Curiosa e affascinante è la testimonianza legata a Gustav Mahler. Il compositore, vegetariano convinto, ne era talmente appassionato che la sorella Justine li preparava regolarmente per lui. Un aneddoto racconta di come Mahler fosse sorpreso nello scoprire che qualcuno a Vienna potesse non amare questo dolce, al punto da condurre un amico scettico direttamente a casa sua per fargli provare la “versione infallibile” cucinata da Justine. In quella scena c’è tutto lo spirito dei Marillenknödel: un dolce che crea legami, che convince, che conquista senza alzare la voce.

Il cuore dei Marillenknödel è l’albicocca. Deve essere matura, ma non sfatta: la giusta consistenza è fondamentale per resistere alla cottura senza disfarsi. Alcuni inseriscono all’interno del frutto una zolletta di zucchero o un piccolo tocco di marzapane, per intensificare il contrasto con l’impasto.

L’involucro, invece, può essere di vari tipi. Le versioni più diffuse lo preparano con patate lessate e schiacciate, arricchite con farina e uova fino a ottenere una massa elastica ma non troppo dura. Esistono però impasti a base di ricotta, più leggeri e delicati, oppure varianti miste che uniscono ricotta e patate. Dopo aver avvolto l’albicocca nell’impasto, la pallina viene cotta in acqua bollente leggermente salata: un passaggio semplice solo in apparenza, perché il rischio è quello di romperla o cuocerla troppo.

Una volta scolati, gli gnocchi vengono tuffati in pangrattato dorato nel burro, che aggiunge croccantezza e un profumo irresistibile di tostato. Lo zucchero a velo, spolverato generosamente, sigilla il tutto con un tocco finale.

Ricetta tradizionale dei Marillenknödel

Ingredienti (per 4 persone):

  • 500 g di patate farinose

  • 150 g di farina 00

  • 2 uova medie

  • 40 g di burro fuso

  • 8 albicocche mature ma sode

  • 8 zollette di zucchero (opzionali)

  • 80 g di pangrattato

  • 60 g di burro per tostare

  • Zucchero a velo q.b.

  • Un pizzico di sale

Preparazione passo per passo:

  1. Lessare le patate: cuocetele con la buccia in acqua salata, scolatele e sbucciatele ancora calde. Schiacciatele finemente.

  2. Preparare l’impasto: unite farina, uova, burro fuso e un pizzico di sale alle patate schiacciate. Lavorate velocemente fino a ottenere un composto compatto ma morbido.

  3. Preparare le albicocche: lavatele e asciugatele. Con un coltello praticate un taglio per eliminare il nocciolo, sostituendolo con una zolletta di zucchero se gradito.

  4. Formare i knödel: prelevate porzioni di impasto, schiacciatele sul palmo e racchiudetevi dentro un’albicocca, sigillando bene.

  5. Cuocere: tuffate i knödel in acqua bollente leggermente salata. Quando salgono in superficie, proseguite la cottura per 5 minuti e poi scolateli con delicatezza.

  6. Tostare il pangrattato: in una padella fate sciogliere il burro, unite il pangrattato e doratelo a fuoco medio, mescolando.

  7. Completare: rotolate i knödel nel pangrattato tostato, disponeteli nei piatti e cospargete con abbondante zucchero a velo.

Serviteli caldi, quando il cuore di albicocca sprigiona tutto il suo succo.

I Marillenknödel sono un dolce sostanzioso, perfetto per chiudere un pranzo domenicale o da gustare come piatto unico nelle giornate estive. Per un abbinamento equilibrato, un vino dolce e fruttato è la scelta più armoniosa. In Austria si sposa spesso con un bicchiere di Riesling della Wachau, che con la sua freschezza bilancia la dolcezza del piatto. In alternativa, un Moscato d’Asti leggero e aromatico aggiunge una nota di vivacità senza appesantire.

Per chi preferisce il tè, una tazza di oolong leggero o di tè bianco esalta la delicatezza delle albicocche, mentre un espresso intenso crea un contrasto piacevole con il pangrattato dorato.

Preparare i Marillenknödel oggi significa portare in tavola un pezzo di storia europea. È un dolce che racconta i frutteti della Wachau, le case contadine dell’Alto Adige, i caffè viennesi e perfino le passioni private di grandi artisti come Mahler. Un dolce semplice nella sua essenza, ma raffinato nell’equilibrio dei sapori: il succo dell’albicocca che si mescola alla morbidezza dell’impasto, il contrasto del pangrattato croccante, il velo di zucchero che accarezza il palato.

In un’epoca di dolci sempre più complessi e scenografici, i Marillenknödel restano una dichiarazione di sobrietà e autenticità: un piccolo scrigno che racchiude la ricchezza della tradizione mitteleuropea e la forza del legame con la terra.

Che siano cucinati da una nonna in una cucina alpina o serviti in un ristorante elegante di Vienna, restano fedeli alla loro missione originaria: celebrare la frutta di stagione, la convivialità e la gioia di condividere. E forse è proprio questa la loro grandezza.


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Tiramisù: il dolce che racconta l’Italia


Non è solo un dessert, è un simbolo dell’identità gastronomica italiana: il tiramisù, con la sua semplicità apparente e la raffinatezza che conquista al primo assaggio, rappresenta un capitolo fondamentale della cultura culinaria del nostro Paese. Nato tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia nella seconda metà del Novecento, questo dolce al cucchiaio ha attraversato le frontiere diventando una delle preparazioni italiane più conosciute al mondo. Un successo che non deriva soltanto dall’equilibrio dei suoi ingredienti, ma anche dalla storia di passione, rivalità e tradizione che lo accompagna.

A differenza di altri dolci italiani legati a secoli di tradizione, il tiramisù ha origini relativamente recenti. Non esistono tracce di ricette ufficiali prima degli anni Sessanta, e la sua comparsa nei dizionari e nei libri di cucina risale solo agli anni Ottanta. Questo lo rende, paradossalmente, uno dei dessert più moderni del repertorio nazionale, eppure già radicato come un classico intramontabile.

Due sono le regioni che si contendono la paternità: il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia. A Treviso, presso il ristorante “Alle Beccherie”, lo chef Roberto “Loly” Linguanotto elaborò una preparazione che univa la tradizione contadina dello “sbatudin” (tuorli montati con zucchero, usati come ricostituente) con il mascarpone, dando vita a una crema vellutata da alternare a savoiardi imbevuti di caffè. È questa la versione più accreditata, codificata poi in ricettari degli anni Ottanta e riconosciuta da gastronomi come Giuseppe Maffioli.

Ma il Friuli rivendica un ruolo altrettanto centrale. A Pieris, nel goriziano, già negli anni Quaranta veniva servita la “Coppa Vetturino”, un dolce stratificato che negli anni Cinquanta prese il nome di “tirime su”. Anche a Tolmezzo, in Carnia, la cuoca Norma Pielli preparava una variante simile, sostituendo burro e alchermes con mascarpone e caffè. Documenti e menù dell’epoca testimoniano che il nome era già in uso prima della consacrazione trevigiana.

Quel che è certo è che il tiramisù nasce come dessert familiare, pensato per dare energia. Non a caso il suo nome evoca un invito: “tirami sù”, cioè “sollevami”, un richiamo tanto alle qualità nutritive quanto a un effetto di conforto e gratificazione.

La diffusione del tiramisù è stata rapidissima. Dalla ristorazione locale si è imposto sulle tavole italiane, fino a conquistare i menù internazionali. Nel 2017 ha persino ottenuto una competizione dedicata, la “Tiramisù World Cup” di Treviso, che attira ogni anno centinaia di non professionisti desiderosi di misurarsi con la ricetta più amata.

Nel frattempo, varianti creative hanno affiancato la formula originale: tiramisù alle fragole, al pistacchio, al limone o servito in bicchieri monoporzione. Nonostante le reinterpretazioni, la versione tradizionale resta la più apprezzata e riconosciuta come prodotto agroalimentare tipico.

La ricetta tradizionale

Ingredienti (per 6 persone):

  • 300 g di savoiardi

  • 500 g di mascarpone fresco

  • 4 uova medie

  • 100 g di zucchero semolato

  • 300 ml di caffè espresso, non zuccherato e raffreddato

  • cacao amaro in polvere q.b.

Preparazione:

  1. Preparate il caffè e lasciatelo raffreddare in una ciotola larga. Non zuccheratelo: il contrasto tra l’amaro del caffè e la dolcezza della crema è fondamentale.

  2. Separate i tuorli dagli albumi. Montate i tuorli con lo zucchero fino a ottenere un composto chiaro e spumoso. Aggiungete il mascarpone poco alla volta, mescolando delicatamente fino a ottenere una crema liscia.

  3. A parte, montate a neve ferma gli albumi. Incorporateli alla crema di mascarpone con movimenti dal basso verso l’alto, per non smontarli.

  4. Inzuppate rapidamente i savoiardi nel caffè: devono assorbirlo senza disfarsi. Disponeteli ordinatamente sul fondo di una pirofila.

  5. Versate metà della crema sopra i savoiardi, livellando con una spatola. Fate un secondo strato di biscotti inzuppati e ricoprite con la restante crema.

  6. Spolverizzate abbondantemente con cacao amaro setacciato. Coprite la pirofila con pellicola e lasciate riposare in frigorifero almeno 3 ore, meglio se tutta la notte.

Il risultato deve essere un equilibrio di consistenze: la leggerezza della crema, la morbidezza dei savoiardi intrisi di caffè e l’amaro secco del cacao in superficie.

Per un gusto più deciso si può aggiungere qualche cucchiaio di Marsala o altro vino liquoroso al caffè, anche se la ricetta originaria non lo prevede. Chi preferisce evitare le uova crude può sostituire i tuorli con una crema pastorizzata o utilizzare albumi già trattati termicamente.

Esistono versioni senza glutine, realizzate con biscotti adatti, e persino interpretazioni vegane, in cui il mascarpone viene sostituito da creme a base di frutta secca o latte vegetale.

Il tiramisù si accompagna bene con vini dolci e liquorosi che sostengano la struttura del dolce senza sovrastarlo. Tra i più adatti:

  • Marsala Superiore: armonizza con le note di caffè e cacao.

  • Vin Santo toscano: la sua dolcezza calda bilancia l’amaro del caffè.

  • Passito di Pantelleria: con le sue sfumature aromatiche di frutta candita crea un contrasto avvolgente.

Per chi preferisce le bevande non alcoliche, il connubio più elegante resta quello con un caffè espresso appena estratto, che prolunga e intensifica il gusto del dessert.

Il tiramisù non è soltanto una ricetta: è un racconto di territori, famiglie, rivalità e contaminazioni culturali. È nato come gesto di cura, pensato per ridare energia, e nel tempo si è trasformato in un rituale condiviso, capace di adattarsi senza perdere la sua identità.

Sedersi davanti a una porzione di tiramisù significa assaporare la storia di due regioni che hanno dato molto alla cucina italiana, ma anche riconoscere il genio creativo di chi ha saputo trasformare ingredienti quotidiani in un’esperienza universale.

Non c’è pranzo in famiglia, cena tra amici o celebrazione internazionale in cui questo dolce non riesca a imporsi come protagonista silenzioso ma indimenticabile. È la prova che la cucina italiana, pur innovandosi, sa custodire l’essenza delle proprie radici.


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