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La Focaccia di Susa: il dolce della Valle che unisce storia, tradizione e gusto


La Focaccia di Susa non è soltanto un dolce, ma un tassello fondamentale dell’identità gastronomica piemontese. Riconosciuta come Prodotto Agroalimentare Tradizionale (P.A.T.), affonda le sue radici nella Valle di Susa, territorio che ha sempre fatto da crocevia tra culture, commerci e sapori. Ancora oggi, questa preparazione mantiene il suo legame con la comunità, celebrata sia nelle case che nelle feste popolari.

Se a prima vista può sembrare una semplice focaccia dolce, in realtà rappresenta un patrimonio che racconta secoli di convivialità e rituali collettivi. La sua fragranza, la leggerezza dell’impasto e la superficie brunita dallo zucchero caramellato sono l’esito di una lunga tradizione che non si è mai interrotta, neppure durante i momenti più difficili della storia.

Le testimonianze più antiche della Focaccia di Susa risalgono almeno alla seconda metà dell’Ottocento, grazie a una ricetta manoscritta del 1870 che certifica la continuità della produzione. Tuttavia, è probabile che le sue origini siano ancora più remote, legate alle grandi festività invernali, quando nei forni di paese si preparava un dolce da condividere con l’intera comunità.

In piemontese, questa focaccia è conosciuta come couroun, ed era in origine un dolce rituale del periodo natalizio e di Capodanno. La sua forma rotonda, che richiama quella di una corona, sottolineava il carattere propiziatorio e celebrativo, simbolo di rinascita e di ciclicità del tempo.

La produzione si è tramandata nei secoli, adattandosi alle disponibilità delle materie prime. Durante la Seconda guerra mondiale, ad esempio, le farine locali furono parzialmente sostituite con il grano Manitoba, di provenienza nordamericana, che garantiva un impasto più elastico e di facile lavorazione. Parallelamente, l’arricchimento con burro e zucchero rese la focaccia ancora più golosa e simile a un dolce da ricorrenza.

Oggi la Focaccia di Susa ha superato il legame esclusivo con le festività ed è presente tutto l’anno nei forni della valle, pur conservando il sapore delle grandi occasioni.

La forza della Focaccia di Susa risiede nella semplicità degli ingredienti e nella precisione della lavorazione. Nonostante la ricetta appaia essenziale, ogni passaggio è fondamentale per ottenere la consistenza morbida e il gusto inconfondibile.

Impasto

Si comincia con farina, uova, burro e zucchero, amalgamati fino a ottenere un composto spugnoso e omogeneo. Il sale viene aggiunto solo in un secondo momento per equilibrare la dolcezza, mentre il lievito di birra, inserito per ultimo, attiva il processo di fermentazione.

Lievitazione

Il composto deve riposare per circa quattro ore, tempo necessario per garantire la leggerezza del dolce. L’attesa è parte integrante della tradizione, perché è proprio la lievitazione lenta a conferire la consistenza morbida e fragrante.

Formatura

Una volta pronto, l’impasto viene suddiviso in dischi di 30-50 cm di diametro e di circa 2 cm di spessore. I bordi vengono leggermente rialzati per trattenere la guarnizione. La superficie è cosparsa con abbondante zucchero, destinato a caramellarsi in cottura, formando quella crosticina brunita e leggermente croccante che contrasta con la morbidezza interna.

Decorazione

Tradizionalmente, sulla superficie vengono tracciate delle scanalature decorative, che variano a seconda del periodo dell’anno e delle occasioni: croci a Pasqua, stelle a Natale, ferri di cavallo come augurio, cuori per le ricorrenze familiari. Questa personalizzazione rende ogni focaccia unica, segno distintivo di un legame stretto con la comunità.

Ricetta tradizionale della Focaccia di Susa

Ecco una versione casalinga che rispetta la tradizione:

Ingredienti

  • 500 g di farina tipo 0 (oppure Manitoba)

  • 3 uova intere

  • 150 g di burro morbido

  • 120 g di zucchero + 50 g per la superficie

  • 1 pizzico di sale

  • 20 g di lievito di birra fresco

  • 100 ml di latte tiepido

Preparazione

  1. Sciogliere il lievito nel latte tiepido.

  2. In una ciotola, montare uova e zucchero fino a ottenere un composto chiaro e spumoso.

  3. Incorporare gradualmente la farina setacciata e il burro morbido.

  4. Unire il sale e, per ultimo, il lievito sciolto. Impastare fino a ottenere una massa liscia ed elastica.

  5. Lasciare lievitare coperto con un panno per almeno 4 ore, in luogo tiepido.

  6. Trascorso il tempo, suddividere l’impasto in due o tre dischi. Disporli su teglie rivestite di carta da forno.

  7. Rialzare i bordi e cospargere la superficie con lo zucchero.

  8. Con un coltello affilato, praticare le decorazioni desiderate.

  9. Cuocere in forno preriscaldato a 180 °C per circa 25-30 minuti, fino a quando la superficie risulta dorata e leggermente caramellata.

Il risultato sarà una focaccia dolce, fragrante e dorata, pronta per essere gustata ancora tiepida o il giorno successivo.

La Focaccia di Susa è un dolce versatile che si presta a numerosi abbinamenti. Per la sua dolcezza equilibrata e la consistenza soffice, può accompagnare sia momenti conviviali che colazioni intime.

  • Con bevande calde: perfetta con il caffè espresso o il cappuccino, ma si sposa altrettanto bene con il tè nero o con tisane aromatiche.

  • Con vini da dessert: eccellente l’abbinamento con il Moscato d’Asti, lo Chambave Muscat valdostano o un passito piemontese, che esaltano la dolcezza caramellata della superficie.

  • Con creme e confetture: la sua semplicità permette di arricchirla con crema pasticcera, zabaione o marmellata di albicocche, senza snaturarne la tradizione.

  • Con formaggi freschi: sorprendente l’accostamento con formaggi cremosi e leggermente acidi, che creano un contrasto piacevole.

La Focaccia di Susa non è un semplice prodotto da forno, ma una testimonianza della capacità di un territorio di preservare le proprie radici attraverso il cibo. Ancora oggi, la città di Susa celebra questo dolce durante la manifestazione “Focacciando”, un evento autunnale che riunisce forni, artigiani e visitatori attorno alla focaccia e ad altre specialità locali.

La sua storia, intrecciata a quella della valle, dimostra come un dolce semplice possa diventare veicolo di identità collettiva, un simbolo che racconta di feste, famiglie e comunità unite attorno a un forno. Prepararla oggi significa ripetere gli stessi gesti dei segusini di due secoli fa, mantenendo viva una tradizione che ha saputo resistere al tempo.



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Flantze: il dolce della Valle d’Aosta che racconta una comunità

Tra i dolci regionali italiani meno conosciuti, ma di grande valore culturale, la Flantze occupa un posto di rilievo nella tradizione della Valle d’Aosta. Si tratta di una preparazione che unisce la semplicità della panificazione contadina alla ricchezza dei doni simbolici riservati ai bambini durante le giornate di lavoro collettivo. La sua storia è strettamente intrecciata alla vita dei villaggi alpini, ai forni comuni e a quella solidarietà comunitaria che per secoli ha reso possibile la sopravvivenza in un territorio montano tanto affascinante quanto difficile.

Oggi, la Flantze sopravvive come dolce tipico, preparato con cura dai panifici artigianali valdostani, che hanno mantenuto viva la ricetta, aggiungendo talvolta varianti moderne. Al tempo stesso, resta un simbolo della memoria gastronomica alpina, un ponte tra passato e presente che racconta con semplicità la capacità della cucina di trasformare la quotidianità in rituale.

La Flantze nacque come dolce di occasione, legato ai rari momenti della panificazione collettiva. Nella Valle d’Aosta, infatti, la preparazione del pane avveniva una o poche volte l’anno, quando interi villaggi si riunivano intorno al forno comune per cuocere il cosiddetto pane nero, ottenuto da farine di segale e frumento, più adatte a conservarsi a lungo.

Durante queste giornate, segnate dal lavoro e dalla condivisione, i bambini partecipavano attivamente, aiutando nelle piccole incombenze o semplicemente vivendo l’atmosfera comunitaria. Per loro, come gesto di riconoscenza e di festa, veniva ricavata dall’impasto del pane una porzione speciale: una pasta dolcificata e arricchita con frutta secca, canditi e burro. Così nacque la Flantze, che non era un dolce quotidiano, bensì un dono atteso e carico di significato.

Tradizionalmente la Flantze aveva forma rotonda, ma non mancavano versioni sagomate a forma di animali, soprattutto destinate ai più piccoli. Gli animali rappresentati derivavano dalla simbologia locale: cervi, galli, pecore, figure legate al ciclo naturale e al mondo alpino. La creazione non era soltanto un divertimento per i bambini, ma anche un modo per trasmettere valori simbolici, radicati nella tradizione valdostana.

Con il passare dei secoli, la Flantze ha continuato a essere prodotta, ma la sua funzione è cambiata. Non più legata unicamente al forno comunitario, è diventata un prodotto dei panifici artigianali, spesso venduta nelle feste di paese e nelle panetterie locali. Alcuni artigiani hanno introdotto varianti con farina bianca o con l’aggiunta di cacao, modernizzando il gusto senza snaturarne l’essenza.

La Flantze è un pane dolce che conserva nella sua struttura la base della panificazione contadina:

  • Farina integrale, generalmente di segale o di frumento, che garantisce sapore rustico e consistenza compatta.

  • Frutta secca come mandorle e noci, che arricchiscono di aromi e nutrienti.

  • Uvetta, che conferisce dolcezza naturale e morbidezza.

  • Scorza d’arancia candita, elemento che dona freschezza e profumo.

  • Burro, ingrediente prezioso che rende l’impasto più soffice e goloso.

  • Zucchero, aggiunto in piccole quantità per addolcire il pane di base.

Nelle versioni più recenti possono essere presenti farina bianca e cacao, che ammorbidiscono la struttura e intensificano il gusto.

Ricetta della Flantze

Ingredienti per una Flantze di medie dimensioni:

  • 300 g di farina di segale integrale

  • 200 g di farina di frumento integrale (o bianca, per una versione più morbida)

  • 80 g di burro morbido

  • 80 g di zucchero

  • 100 g di uvetta ammollata in acqua tiepida

  • 60 g di mandorle tritate grossolanamente

  • 60 g di noci spezzettate

  • 50 g di scorza d’arancia candita a cubetti

  • 15 g di lievito di birra fresco

  • 200 ml di acqua tiepida

  • 1 pizzico di sale

Preparazione:

  1. Sciogliere il lievito in poca acqua tiepida con un cucchiaino di zucchero e lasciarlo attivare per circa dieci minuti.

  2. In una ciotola capiente mescolare le farine e il sale.

  3. Unire il lievito attivato e l’acqua rimanente, impastando fino a ottenere un composto omogeneo.

  4. Aggiungere il burro ammorbidito e lo zucchero, continuando a lavorare l’impasto finché non risulta liscio ed elastico.

  5. Incorporare l’uvetta ben strizzata, le mandorle, le noci e la scorza d’arancia candita, distribuendole uniformemente.

  6. Formare una palla, coprirla con un panno umido e lasciare lievitare per due ore in un luogo tiepido.

  7. Riprendere l’impasto, dargli la forma tradizionale rotonda o sagomata, disporlo su una teglia rivestita di carta forno e lasciar lievitare per altri 30 minuti.

  8. Cuocere in forno preriscaldato a 180 °C per circa 35-40 minuti, fino a doratura.

  9. Lasciare raffreddare su una griglia prima di servire.

Il risultato è un dolce rustico e profumato, in cui la croccantezza della frutta secca si sposa con la morbidezza dell’uvetta e la freschezza della scorza candita.

La Flantze, essendo un dolce di origine contadina, si presta a numerosi abbinamenti che ne esaltano il carattere genuino. Può essere gustata:

  • A colazione, accompagnata da caffè, latte o tè, come alternativa a pane e marmellata.

  • A merenda, con una tazza di cioccolata calda o con infusi alle erbe di montagna.

  • Con vini da dessert: particolarmente indicati il Moscato d’Asti, la Malvasia dolce o un passito valdostano, che ne completano le note di frutta secca e canditi.

  • Con formaggi stagionati, secondo un abbinamento insolito ma sorprendente, dove la dolcezza del pane contrasta con la sapidità dei prodotti caseari locali, come la Fontina o il Toma.

La Flantze non è soltanto un dolce, ma un frammento di vita comunitaria che sopravvive nel tempo. Prepararla oggi significa mantenere viva una memoria collettiva fatta di gesti semplici, di forni condivisi e di bambini che, nei villaggi della Valle d’Aosta, attendevano con gioia il proprio dono speciale.



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Torta Margherita: leggerezza e tradizione della pasticceria italiana


Tra i dolci più rappresentativi della tradizione dolciaria dell’Italia centro-settentrionale, la Torta Margherita occupa un posto speciale. La sua leggerezza, la consistenza soffice e il sapore delicato la rendono un dolce apprezzato a colazione, a merenda o come base per altre preparazioni più elaborate. La Torta Margherita non è solo un dolce: è simbolo di artigianalità semplice, capace di raccontare la storia della cucina domestica italiana, dove pochi ingredienti ben combinati riescono a generare un risultato sorprendente.

Le origini della Torta Margherita risalgono alla fine del XIX secolo, probabilmente nell’area del centro-nord Italia, dove la pasticceria casalinga cercava dolci leggeri e facilmente digeribili. La particolarità di questa torta sta nel suo impasto arioso, ottenuto montando accuratamente uova e zucchero, e nell’uso della fecola di patate, ingrediente chiave che conferisce morbidezza e leggerezza alla struttura.

Il nome “Margherita” potrebbe derivare dall’aspetto floreale della torta, che ricorda la semplicità e la delicatezza del fiore, oppure dalla tradizione di nominarla in occasione di ricorrenze familiari. Questo dolce ha conosciuto una larga diffusione soprattutto in Emilia, Lombardia, Piemonte e Veneto, diventando un elemento fondamentale della pasticceria domestica e delle colazioni tradizionali.

Nonostante la semplicità degli ingredienti, la Torta Margherita ha ispirato numerose varianti, dalla versione al cacao a quella aromatizzata al limone o alla vaniglia, diventando un punto di partenza versatile per la realizzazione di torte più complesse, farcite con creme, frutta o cioccolato.

La Torta Margherita si distingue per:

  • Sofficezza: l’impasto è leggero e arioso, grazie alla montatura delle uova e all’uso della fecola.

  • Delicatezza del sapore: dolce senza essere stucchevole, con leggere note agrumate se arricchita con scorza di limone o vaniglia.

  • Versatilità: può essere consumata semplice, spolverata con zucchero a velo, oppure farcita con marmellate, creme o ganache al cioccolato.

Queste caratteristiche rendono la Torta Margherita ideale sia per chi cerca un dolce semplice e leggero, sia per pasticceri che vogliono utilizzarla come base per dessert più elaborati.

Ingredienti principali

Per una torta da circa 8 porzioni:

  • 4 uova grandi

  • 150 g di zucchero semolato

  • 100 g di fecola di patate

  • 50 g di farina 00 (opzionale, per maggiore struttura)

  • 1 cucchiaio di succo di limone

  • 1 pizzico di sale

  • Burro e farina per lo stampo

  • Zucchero a velo per decorare (facoltativo)

Preparazione passo passo

  1. Preparare lo stampo: imburrare e infarinare uno stampo rotondo di circa 24 cm di diametro, assicurandosi che la superficie sia ben protetta per evitare che la torta si attacchi.

  2. Montare i tuorli: separare i tuorli dagli albumi. In una ciotola capiente, sbattere i tuorli con metà dello zucchero fino a ottenere un composto chiaro e spumoso.

  3. Montare gli albumi: in un’altra ciotola, montare gli albumi con un pizzico di sale fino a ottenere picchi morbidi. Aggiungere gradualmente lo zucchero restante e continuare a montare fino a quando la meringa risulta lucida e stabile.

  4. Incorporare gli ingredienti secchi: setacciare la fecola di patate (e la farina, se utilizzata) e aggiungerla ai tuorli montati, mescolando delicatamente con una spatola per non smontare il composto.

  5. Unire albumi e tuorli: incorporare gli albumi montati in tre volte al composto di tuorli e fecola, utilizzando movimenti delicati dal basso verso l’alto, per mantenere la massima leggerezza.

  6. Aromatizzare: aggiungere il succo di limone o la scorza grattugiata per conferire freschezza e un aroma delicato all’impasto.

  7. Cottura: versare l’impasto nello stampo preparato e cuocere in forno preriscaldato a 180°C per circa 20-25 minuti, controllando la cottura con uno stecchino che deve uscire pulito.

  8. Raffreddamento: lasciare intiepidire la torta nello stampo per 10 minuti, quindi sformarla su una gratella e lasciarla raffreddare completamente. Decorare con zucchero a velo prima di servire.

La Torta Margherita può essere servita semplice, per apprezzarne la leggerezza, oppure arricchita da una spolverata di cacao o cioccolato grattugiato. È ideale come dolce da colazione o merenda, ma può essere anche la base di dessert più elaborati, come torte farcite con crema pasticcera, marmellata di frutti rossi, ganache al cioccolato o frutta fresca.

Per esaltare la delicatezza della Torta Margherita:

  • Bevande calde: tè neri leggeri, infusi di frutta o caffè lungo, che bilanciano la dolcezza e valorizzano l’aroma del limone.

  • Vini dolci: Moscato d’Asti o Passito di Pantelleria creano un abbinamento armonico con la morbidezza e la delicatezza della torta.

  • Farcie e creme: abbinare con confetture di frutti rossi, crema al cioccolato o chantilly, sfruttando la versatilità della base.

La Torta Margherita offre molte possibilità di variazione:

  • Al limone o arancia: aggiungendo scorza e succo agli ingredienti principali per un aroma più agrumato.

  • Al cacao: sostituendo una parte della fecola con cacao amaro per ottenere un dolce più intenso e scuro.

  • Farcita: tagliata a metà e farcita con crema pasticcera, marmellata o ganache, trasformandola in una torta più elaborata per occasioni speciali.

  • Con frutta fresca: servita con fragole, lamponi o frutti di bosco per un contrasto di dolcezza e acidità.

La Torta Margherita rappresenta l’equilibrio perfetto tra semplicità e bontà. Con pochi ingredienti, un procedimento chiaro e alcune tecniche di base, è possibile ottenere un dolce leggero, soffice e versatile, che ha saputo resistere al tempo e diventare un simbolo della pasticceria domestica italiana.

Preparare la Torta Margherita significa comprendere l’importanza della montatura, della delicatezza nella lavorazione e della scelta degli ingredienti, dimostrando come la maestria in cucina non richieda sempre complessità, ma attenzione, precisione e passione. La sua leggerezza la rende ideale per ogni occasione, dalla colazione alla merenda, e la sua struttura semplice ma elegante permette di utilizzarla come base per dessert più elaborati, celebrando la creatività e la tradizione italiana.


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Torta nera di San Secondo: il sapore profondo dell’Emilia




Nel panorama dolciario dell’Emilia, tra ricette tramandate da generazioni e creazioni più recenti, spicca la Torta nera di San Secondo, un dessert dal colore intenso e dal gusto avvolgente. Originaria del comune di San Secondo Parmense, questa torta si distingue per la sua struttura a doppio strato e per l’uso sapiente di cacao, caffè e mandorle, che insieme creano un equilibrio tra dolcezza e note amarognole.

Nonostante la sua diffusione risalga alla metà del XX secolo, la torta nera di San Secondo è riuscita a entrare nella tradizione locale, guadagnandosi un posto tra le specialità della provincia e venendo citata da autori come Anna Gosetti della Salda nei suoi libri dedicati alla cucina regionale italiana. La sua storia è un esempio di come un dolce relativamente recente possa conquistare fama e identità culturale, diventando simbolo di una comunità.

La paternità della Torta nera di San Secondo è controversa e, sebbene non antichissima, la sua nascita risale agli anni Sessanta e Settanta del Novecento. È stata inizialmente prodotta da piccole attività artigianali e proposta in occasione di feste locali e sagre, dove la sua particolarità e il gusto intenso ne hanno favorito la rapida diffusione.

Diversa da altre torte nere, come la famosa Torta Barozzi di Modena, la Torta nera di San Secondo si caratterizza per la doppia massa: una base di pasta frolla che funge da contenitore e una farcia scura e aromatica a base di cacao, caffè e mandorle, distribuita all’interno. Questa combinazione garantisce non solo una consistenza piacevole, ma anche un contrasto di sapori che rende ogni fetta interessante e completa.

La Torta nera di San Secondo si presenta con una frolla lievitata esterna di colore dorato chiaro, leggermente meno dolce rispetto alla pasta frolla classica, per bilanciare la dolcezza intensa del ripieno. Il ripieno, invece, è di un colore bruno intenso, quasi nero, e combina il sapore del cacao dolce, l’aroma deciso del caffè espresso e la rotondità delle mandorle tostate e macinate finemente.

Ingredienti principali

Per la pasta frolla:

  • 250 g di farina 00

  • 150 g di burro morbido

  • 100 g di zucchero

  • 3 tuorli d’uovo

  • 1 pizzico di sale

  • 8 g di lievito per dolci

Per la farcia nera:

  • 150 g di mandorle tostate

  • 50 g di cacao dolce

  • 50 g di zucchero semolato

  • 2 tuorli d’uovo

  • 100 ml di caffè espresso concentrato

Varianti opzionali: rum o anice per aromatizzare la frolla, sostituzione di parte delle mandorle con noci, inserimento di amaretti sbriciolati o fondi di caffè nel ripieno.

Preparazione passo passo

  1. Preparare la pasta frolla: lavorare il burro morbido con lo zucchero fino a ottenere una crema soffice. Incorporare i tuorli uno alla volta, aggiungere il sale e infine la farina setacciata con il lievito. Impastare velocemente fino a ottenere un composto omogeneo. Formare una palla, avvolgerla in pellicola e lasciarla riposare in frigorifero per almeno 30 minuti.

  2. Preparare la farcia: tostare le mandorle e macinarle finemente. In una ciotola mescolare le mandorle tritate con il cacao, lo zucchero e i tuorli. Aggiungere il caffè espresso fino a ottenere una crema omogenea e densa.

  3. Assemblaggio della torta: stendere la pasta frolla in uno strato sottile e rivestire uno stampo a cerniera imburrato, lasciando un bordo di qualche centimetro. Versare la farcia al cacao e caffè all’interno e livellare con una spatola. Coprire eventualmente con un ulteriore strato sottile di frolla, oppure lasciare scoperto il ripieno per una presentazione rustica.

  4. Cottura: preriscaldare il forno a 170 °C e cuocere per circa 35-40 minuti, fino a quando la frolla appare dorata e il ripieno compatto. Lasciare raffreddare completamente prima di sformare e tagliare a fette.

La Torta nera di San Secondo può essere servita semplice, tagliata a fette, oppure accompagnata da un velo di zucchero a velo o da una leggera glassa al cioccolato per occasioni speciali. Il contrasto tra la frolla croccante e il ripieno morbido e aromatico rende ogni fetta un’esperienza completa.

Per esaltare il gusto intenso e complesso della torta:

  • Bevande calde: un caffè espresso o un caffè lungo valorizzano le note del cacao e del caffè nel ripieno.

  • Vini da dessert: un Passito di Malvasia o un Vin Santo creano un abbinamento armonico con la dolcezza delle mandorle e la nota amara del cacao.

  • Liquori aromatici: rum chiaro, grappa giovane o liquore all’amaretto possono completare il gusto della fetta, sottolineando le sfumature tostate e speziate della farcia.

La Torta nera di San Secondo offre ampi margini di personalizzazione senza snaturare la ricetta originale. Alcune varianti prevedono:

  • Aromatizzare la pasta frolla con rum o anice per un tocco speziato.

  • Sostituire parte delle mandorle con noci, per un sapore più intenso e terroso.

  • Aggiungere amaretti sbriciolati o fondi di caffè nel ripieno, aumentando complessità e texture.

  • Servire con un velo di cioccolato fondente temperato o una spolverata di cacao amaro per un effetto più scenografico.

La Torta nera di San Secondo rappresenta un esempio chiaro di come una ricetta relativamente recente possa entrare rapidamente nella tradizione locale, grazie al sapore distintivo e alla capacità di adattarsi a occasioni festive e sagre. La combinazione di pasta frolla delicata, farcia intensa a base di cacao, caffè e mandorle, e le possibili varianti aromatiche, rendono questo dolce versatile e apprezzabile sia dagli amanti dei sapori classici sia da chi cerca contrasti più complessi.

Preparare la torta a casa richiede attenzione nella gestione della frolla e del ripieno, ma il risultato finale ripaga con una fetta ricca di profumi, consistenze e aromi che raccontano la storia di un territorio e la creatività dei pasticceri emiliani. La Torta nera di San Secondo non è solo un dolce, ma una testimonianza di come tradizione e innovazione possano incontrarsi, dando vita a una specialità amata e riconosciuta a livello regionale.


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Torta Setteveli: l’eleganza del cioccolato e della nocciola


Nel panorama della pasticceria contemporanea, pochi dolci riescono a coniugare complessità tecnica, equilibrio dei sapori e riconoscibilità immediata come la Torta Setteveli. Questo dessert, frutto dell’ingegno di tre maestri italiani, è diventato un punto di riferimento internazionale, celebrato non solo per la sua struttura a più strati ma anche per la capacità di esprimere armonia tra ingredienti di alta qualità: cioccolato, nocciole e gianduia.

La Torta Setteveli nasce nel 1997 dalla collaborazione di tre pasticceri italiani: Luigi Biasetto di Padova, Cristian Beduschi di Belluno e Gianluca Mannori di Prato. La creazione del dolce ha coinciso con la partecipazione della squadra italiana alla prestigiosa competizione internazionale Coupe du Monde de la Pâtisserie a Lione, dove la Setteveli contribuì alla vittoria del team.

Secondo gli ideatori, la torta è stata pensata per rappresentare le qualità femminili, un concetto espresso attraverso l’equilibrio tra delicatezza e struttura, morbidezza e croccantezza, dolcezza e intensità aromatica. Ogni elemento della torta ha un ruolo preciso, dalla base soffice alle mousse setose, fino agli strati di cioccolato che conferiscono eleganza e carattere.

La diffusione della Setteveli è internazionale, pur mantenendo una forte connotazione italiana. Sebbene alcune repliche siano state create in altre regioni – come la Sicilia – la ricetta originale è tutelata da segreto aziendale e marchio registrato, a sottolineare la cura e l’innovazione dietro ogni dettaglio della preparazione.

La Torta Setteveli si distingue per la sua architettura a più strati: sette elementi che si alternano tra consistenze morbide, croccanti e leggere mousse. I principali ingredienti sono:

  • Pan di Spagna alle mandorle pugliesi, privo di farina tradizionale, che conferisce leggerezza e struttura al dolce.

  • Mousse di nocciole del Piemonte, dalle note intense e tostate, che garantisce cremosità e sapore deciso.

  • Cioccolato Madagascar, scelto per la sua aromaticità intensa e per le note fruttate tipiche di questa origine.

  • Gianduia croccante ai cereali, che aggiunge un contrasto di texture e un tocco di fragranza.

Il risultato è un dolce elegante, capace di sorprendere non solo visivamente ma anche al palato, dove ogni strato mantiene il suo carattere pur fondendosi armoniosamente con gli altri.

Ingredienti per la ricetta originale

Per una torta da circa 8-10 porzioni:

  • 150 g di mandorle pelate

  • 100 g di zucchero a velo

  • 4 uova intere

  • 150 g di cioccolato fondente Madagascar

  • 200 g di nocciole del Piemonte

  • 200 ml di panna fresca

  • 150 g di gianduia croccante ai cereali

  • 50 g di burro

  • 1 cucchiaio di zucchero semolato per montare le uova

Preparazione passo passo

  1. Base di Pan di Spagna alle mandorle: tostare le mandorle e frullarle finemente. Montare le uova con lo zucchero fino a ottenere un composto spumoso. Incorporare delicatamente le mandorle tritate e mescolare per ottenere un impasto uniforme. Versare in una teglia foderata e cuocere a 180 °C per circa 20 minuti. Lasciare raffreddare.

  2. Crema bavarese alla nocciola: tritare le nocciole e tostare leggermente. Sciogliere il cioccolato bianco a bagnomaria e mescolarlo alle nocciole frullate fino a ottenere una pasta liscia. Montare la panna fresca a parte e incorporarla delicatamente al composto di nocciole e cioccolato bianco, ottenendo una mousse vellutata.

  3. Mousse al cioccolato fondente Madagascar: sciogliere il cioccolato a bagnomaria. Montare leggermente la panna e unirla al cioccolato fuso raffreddato, mescolando con delicatezza per non smontare la mousse.

  4. Fondo croccante di gianduia ai cereali: sciogliere la gianduia a bagnomaria con il burro e incorporare i cereali tritati grossolanamente. Stendere il composto in uno strato uniforme su carta forno e lasciare raffreddare fino a solidificazione.

  5. Assemblaggio: posizionare il Pan di Spagna come base. Alternare gli strati di mousse al cioccolato, bavarese di nocciole e gianduia croccante, cercando di distribuire uniformemente gli strati e livellare la superficie. Terminare con una sfoglia di cioccolato fondente temperato per ottenere un effetto lucido e uniforme.

  6. Raffreddamento e maturazione: lasciare la torta in frigorifero per almeno 4-6 ore prima di servire. Questo passaggio è fondamentale per permettere agli strati di compattarsi e ai sapori di amalgamarsi.

La Torta Setteveli può essere servita con decorazioni leggere, come scaglie di cioccolato fondente o nocciole tostate, evitando eccessi che compromettano la pulizia visiva. Tagliata in fette regolari, mostra i sette strati che caratterizzano il dolce, invitando chi lo osserva ad assaporarne le consistenze diverse: dal croccante della gianduia alla morbidezza della bavarese, fino al gusto pieno e intenso della mousse fondente.

Per esaltare le note complesse della Setteveli, si possono considerare diverse combinazioni:

  • Vini dolci e liquorosi: un passito siciliano o un Vin Santo toscano bilanciano la dolcezza del cioccolato e delle nocciole, offrendo un contrasto piacevole e armonico.

  • Caffè o espresso: la tostatura e l’amaro delicato del caffè si sposano perfettamente con le note intense della mousse fondente.

  • Liquori aromatici: un calice di grappa o di rum speziato può accompagnare la fetta di torta, sottolineando le sfumature tostate e fruttate del cioccolato Madagascar e delle nocciole piemontesi.

La Torta Setteveli rappresenta un punto di incontro tra tecnica pasticcera e gusto raffinato. Ogni strato è pensato per offrire un’esperienza sensoriale unica, dove consistenze e aromi si equilibrano con precisione. La sua nascita come dolce di competizione internazionale, premiato alla Coupe du Monde de la Pâtisserie di Lione, testimonia l’elevato livello di abilità richiesto per realizzarla, ma la sua diffusione internazionale dimostra come un dolce ben progettato possa diventare apprezzato anche fuori dai contesti professionali.

Preparare la Setteveli a casa richiede pazienza e precisione, ma il risultato ripaga con un dessert elegante e complesso, capace di sorprendere sia visivamente sia al palato. La scelta degli ingredienti, la cura nella preparazione e la presentazione finale trasformano questo dolce in un’esperienza che celebra la pasticceria italiana e l’attenzione ai dettagli, dalla selezione delle nocciole piemontesi al cioccolato di origine Madagascar.


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Treccia mochena: storia e sapori di un dolce trentino


Nel cuore delle valli trentine, tra boschi di conifere e montagne innevate, si trova la Valle dei Mocheni, territorio noto per la sua lingua, le sue tradizioni e una gastronomia che unisce cultura mitteleuropea e creatività locale. Tra le specialità che oggi attirano l’attenzione dei visitatori c’è la Treccia mochena, un dolce dall’aspetto elegante e dal gusto avvolgente, caratterizzato da una pasta lievitata intrecciata e farcita con crema pasticcera e marmellata di mirtilli.

Pur evocando una lunga tradizione, la Treccia mochena è, in realtà, una creazione moderna, frutto di una reinterpretazione artigianale che ha saputo inserirsi nelle abitudini gastronomiche della valle. La sua storia dimostra come la tradizione possa essere dinamica, capace di accogliere innovazioni senza perdere la propria identità.

A dispetto del nome, la Treccia mochena non ha origini antiche nella cucina popolare della valle. Non compare nei ricettari storici né nella memoria delle famiglie locali, e gli ingredienti utilizzati – crema pasticcera, marmellata di mirtilli, burro e uova – non erano propriamente comuni nella tradizione gastronomica mochena, storicamente più legata a prodotti da forno semplici, formaggi e conserve.

Il dolce è stato reinventato dal panificio Osler di Canezza, chiuso nel 2012, sulla base di una presunta “antica ricetta locale”, senza che vi siano prove documentali della sua esistenza storica. Nonostante la contestata autenticità, la Treccia mochena è stata gradualmente accettata dalla comunità, fino a ottenere il riconoscimento ufficiale come Prodotto Agroalimentare Tradizionale (P.A.T.), simbolo della capacità di una cultura locale di adattarsi e rinnovarsi.

Questa trasformazione mette in luce un fenomeno interessante: un dolce può entrare a pieno titolo nella tradizione di un territorio non perché sia antico, ma perché conquista il favore di chi lo prepara e lo consuma. La Treccia mochena, pur recente, è diventata parte della cultura culinaria trentina, proposta nelle pasticcerie locali e nelle occasioni festive.

La Treccia mochena si distingue per la sua forma intrecciata, simile a una treccia di pane dolce, e per la consistenza soffice dell’impasto. La pasta lievitata è lavorata con farina, burro, zucchero, uova e latte, risultando elastica e delicata. La farcitura interna combina crema pasticcera vellutata e marmellata di mirtilli, creando un contrasto di dolcezza e acidità che bilancia il sapore complessivo del dolce.

La superficie dorata e lucida è spesso decorata con strisce di pasta incrociate, richiamando l’aspetto di una treccia classica. Questa presentazione non è solo estetica: consente di mantenere compatto il ripieno durante la cottura e conferisce al dolce una piacevole texture che alterna morbidezza e leggerezza.

Ingredienti principali

  • 500 g di farina 00

  • 200 ml di latte tiepido

  • 80 g di burro morbido

  • 100 g di zucchero

  • 2 uova intere

  • 10 g di cubetto di lievito di birra fresco

  • 250 g di crema pasticcera pronta

  • 150 g di marmellata di mirtilli

  • un pizzico di sale

  • scorza grattugiata di limone non trattato (facoltativa)

Preparazione passo passo

  1. Preparare l’impasto: sciogliere il lievito nel latte tiepido con un cucchiaino di zucchero e lasciare riposare per circa 10 minuti. In una ciotola capiente unire la farina setacciata, lo zucchero restante e il sale. Incorporare le uova, il burro ammorbidito e il latte con il lievito, lavorando l’impasto fino a ottenere una consistenza liscia ed elastica.

  2. Lievitazione: coprire l’impasto con un panno pulito e lasciarlo lievitare in un luogo tiepido per circa 1-2 ore, fino a quando raddoppia di volume.

  3. Stendere e farcire: su una superficie leggermente infarinata stendere l’impasto in un rettangolo di circa 40x30 cm. Distribuire uniformemente la crema pasticcera lasciando un bordo libero sui lati. Sovrapporre la marmellata di mirtilli, distribuendola in strisce sottili lungo la lunghezza del rettangolo.

  4. Formare la treccia: tagliare l’impasto lungo i bordi laterali a strisce oblique di 2-3 cm. Piegare le strisce centrali verso l’interno alternandole sopra il ripieno, intrecciandole delicatamente fino a formare la tipica treccia. Sigillare bene le estremità.

  5. Seconda lievitazione: trasferire la treccia su una teglia foderata con carta forno e lasciarla lievitare per altri 30 minuti, coperta da un panno.

  6. Cottura: preriscaldare il forno a 180°C e cuocere per 30-35 minuti, fino a ottenere una doratura uniforme. Lasciare raffreddare completamente prima di tagliare e servire.

La Treccia mochena si apprezza meglio a temperatura ambiente, tagliata in fette regolari che mostrino il contrasto tra pasta soffice e ripieno colorato. Per esaltarne ulteriormente l’aspetto, si può spolverare leggermente con zucchero a velo o decorare la superficie con mandorle affettate.

Per valorizzare al meglio i sapori del dolce, è possibile accostarlo a diverse bevande e preparazioni:

  • Bevande calde: tè neri aromatici, infusi ai frutti di bosco o un classico caffè espresso.

  • Vini da dessert: un Moscato Rosa dell’Alto Adige o un passito leggero completano la dolcezza della crema e l’acidità dei mirtilli.

  • Bevande alcoliche: una grappa giovane trentina o un liquore alla frutta possono essere serviti in piccole quantità per chi cerca un contrasto deciso.

La Treccia mochena è versatile: può accompagnare una colazione festiva, una merenda o essere servita come dessert dopo un pranzo di famiglia, rappresentando un elemento di condivisione e convivialità.

La Treccia mochena illustra in maniera chiara come una ricetta recente possa inserirsi nelle tradizioni di una regione. Pur non essendo presente nella memoria storica della Valle dei Mocheni, è diventata un dolce riconosciuto e apprezzato, capace di raccontare la creatività e l’adattamento culturale del territorio. La combinazione di pasta lievitata, crema pasticcera e marmellata di mirtilli offre un equilibrio di sapori che conquista chiunque la assaggi, rendendo la Treccia mochena un dolce che unisce storia, gusto e convivialità.

Prepararla significa non solo realizzare un dessert, ma anche partecipare a un piccolo rito contemporaneo che celebra la gastronomia trentina, la passione artigianale e la capacità della comunità di accogliere novità senza perdere il senso di appartenenza.


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Zelten: il dolce natalizio del Trentino-Alto Adige che unisce storia e tradizione


Quando si parla di Natale nelle valli trentine, il pensiero corre subito al profumo speziato e avvolgente dello Zelten, una torta ricca di frutta secca e canditi che racchiude in sé secoli di storia e di ritualità domestica. Non è solo un dessert, ma un simbolo di convivialità, di famiglia e di legame con il territorio alpino. Chiunque l’abbia assaggiato conosce la sua densità e la sua dolcezza intensa, capaci di raccontare con un solo morso le lunghe serate invernali attorno al focolare, quando ogni ingrediente era prezioso e ogni ricetta diventava un atto di celebrazione.

Lo Zelten è un dolce che affonda le proprie radici nel cuore della cultura mitteleuropea. Il suo nome sembra derivare dal termine tedesco selten, che significa “raramente”, e rimanda al fatto che questo dolce veniva preparato solo in particolari occasioni, soprattutto nel periodo natalizio. In passato, infatti, ingredienti come la frutta secca, i fichi e i canditi non erano di uso comune: si trattava di alimenti costosi e difficili da reperire, riservati alle feste e alle grandi occasioni.

La prima testimonianza scritta risale al XVIII secolo, quando lo Zelten viene citato in alcuni trattati di cucina. Un manoscritto custodito presso la biblioteca comunale di Rovereto descrive dettagliatamente la preparazione del cosiddetto Celteno, nome con cui era conosciuto allora. Già all’epoca, dunque, lo Zelten rappresentava un dolce celebrativo, capace di unire comunità e famiglie intorno al valore della condivisione.

La sua diffusione è stata ampia in tutto il territorio trentino e sudtirolese, fino al Tirolo austriaco. Ogni valle, e spesso ogni famiglia, ha sviluppato la propria ricetta, con varianti che differiscono per proporzioni e ingredienti aggiuntivi: chi predilige più noci, chi arricchisce con datteri o prugne secche, chi aggiunge spezie come cannella e chiodi di garofano. Nonostante queste differenze, lo Zelten resta riconoscibile per la sua struttura compatta, la ricchezza di frutta e la decorazione in superficie, sempre curata come segno di orgoglio domestico.

Oggi è inserito nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali italiani (P.A.T.), una certificazione che ne garantisce la tutela e che riconosce il valore culturale di una preparazione che ha attraversato i secoli senza perdere la propria autenticità.

La ricetta dello Zelten può variare sensibilmente da un luogo all’altro, ma esiste una base comune che permette di identificarlo. Ecco una versione classica trentina, bilanciata e fedele allo spirito originario.

Ingredienti

  • 250 g di farina 00

  • 150 g di burro morbido

  • 150 g di zucchero semolato

  • 3 uova intere

  • 1 bustina di lievito per dolci

  • 100 g di fichi secchi

  • 100 g di noci sgusciate

  • 100 g di mandorle pelate

  • 50 g di pinoli

  • 100 g di uva sultanina

  • 100 g di canditi misti (arancia, cedro, limone)

  • scorza grattugiata di un limone non trattato

  • mezzo bicchiere di grappa o rum (facoltativo, per ammorbidire l’uvetta)

  • un pizzico di sale

Preparazione passo per passo

  1. Preparare la frutta secca: tagliare grossolanamente fichi, noci e mandorle; mettere l’uvetta in ammollo nella grappa (o nel rum, o semplicemente in acqua tiepida) per almeno 20 minuti.

  2. Montare l’impasto base: in una ciotola capiente lavorare burro e zucchero fino a ottenere una crema morbida. Aggiungere le uova una alla volta, continuando a mescolare.

  3. Incorporare gli ingredienti secchi: unire la farina setacciata con il lievito e un pizzico di sale, amalgamando bene fino a ottenere un impasto consistente.

  4. Unire la frutta: aggiungere all’impasto fichi, noci, mandorle, pinoli, uvetta strizzata, canditi e scorza di limone. Mescolare con cura per distribuire uniformemente i pezzi di frutta.

  5. Formare il dolce: trasferire l’impasto in una teglia imburrata e infarinata, modellandolo con le mani in una forma ovale o circolare, piuttosto piatta. La superficie può essere decorata con mandorle e noci intere disposte a motivi geometrici.

  6. Cottura: cuocere in forno statico a 180 °C per circa 45-50 minuti, fino a quando la superficie sarà dorata e il dolce risulterà asciutto all’interno.

  7. Raffreddamento: lasciare raffreddare completamente prima di servire. Lo Zelten, come molti dolci a base di frutta secca, migliora di sapore dopo uno o due giorni di riposo, quando gli aromi si amalgamano.

Lo Zelten non è semplicemente un dolce natalizio, ma un vero e proprio rito domestico. La sua preparazione coinvolgeva in passato tutta la famiglia, spesso qualche giorno prima della Vigilia, in un clima di collaborazione e festa. L’impasto ricco e la decorazione accurata erano segni tangibili di prosperità e di buon augurio per l’anno a venire.

In alcune zone del Trentino, lo Zelten veniva addirittura donato ai vicini e ai parenti come segno di amicizia e di pace durante le festività. Era un gesto che consolidava i rapporti sociali e che ancora oggi sopravvive, seppur in forme più moderne.

Lo Zelten, per la sua densità e dolcezza intensa, richiede abbinamenti che sappiano bilanciare la ricchezza del gusto. Alcune scelte consigliate:

  • Vino dolce passito: un Vin Santo trentino o un Moscato Giallo Passito si sposano perfettamente, grazie alla loro aromaticità e alla struttura vellutata.

  • Grappa invecchiata: per chi ama i sapori decisi, un piccolo bicchiere di grappa trentina, magari barricata, esalta la componente fruttata del dolce.

  • Bevande calde: tè nero speziato, infusi alla cannella o persino un vin brulé rappresentano ottimi compagni per una fetta di Zelten, soprattutto nelle fredde serate natalizie.

  • Formaggi stagionati: in alcune tradizioni lo Zelten viene accostato a formaggi dal sapore deciso come il Trentingrana, creando un contrasto dolce-salato di grande eleganza.

Lo Zelten è molto più di una torta: è un racconto che si tramanda attraverso le generazioni, un legame tra passato e presente che resiste anche nell’epoca della cucina globale. Ogni fetta porta con sé la memoria delle famiglie che lo hanno preparato con cura, la rarità degli ingredienti che un tempo lo rendevano speciale, e la gioia di un Natale vissuto come tempo di condivisione e comunità.

Prepararlo oggi significa non solo cucinare un dolce tradizionale, ma rinnovare un rito collettivo che da secoli accompagna le feste di fine anno sulle Alpi trentine. Un invito, dunque, a portare in tavola un pezzo autentico di storia e a lasciarsi avvolgere dal suo sapore ricco, caldo e avvolgente.


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Zeppola: Il Dolce Tradizionale Italiano che Racconta la Festa di San Giuseppe


Tra le dolci tradizioni italiane, poche possono vantare la varietà, l’ampiezza geografica e la profondità storica delle zeppole. Conosciute in tutta Italia, assumono forme e caratteristiche differenti a seconda della regione, ma mantengono sempre un legame stretto con le feste religiose e la cultura popolare. La zeppola di San Giuseppe, in particolare, è un dolce simbolo della pasticceria napoletana, consumato in occasione della festa del 19 marzo, ma la sua storia e le sue varianti si estendono dal Nord al Sud del Paese, dal Carnevale alle tavole natalizie, raccontando secoli di tradizioni culinarie regionali.

L’origine delle zeppole è oggetto di dibattito tra gli storici della gastronomia. Le più celebri, le zeppole napoletane, nascono come evoluzione delle antiche frittelle dolci partenopee, menzionate già nel ricettario di Ippolito Cavalcanti del 1837. La versione moderna, con pasta a bignè, crema pasticcera e amarena sciroppata, fu resa famosa dal pasticcere Pintauro nel 1840, che trasferì nel capoluogo campano un’antica tradizione barlettana, perfezionandola con metodi più raffinati di cottura e guarnizione. Tuttavia, le zeppole non sono esclusivamente napoletane: in Puglia, Sicilia, Abruzzo, Calabria e Marche esistono interpretazioni locali che differiscono per forma, cottura e farcitura.

A Napoli, le zeppole di San Giuseppe possono essere fritte o cotte al forno. La forma tipica è circolare, con un foro centrale di circa 2 cm di diametro, farcita con crema pasticcera e decorata con amarene sciroppate e zucchero a velo. Alcune pasticcerie propongono anche varianti con crema gianduia o panna, sebbene la tradizione mantenga al centro la crema classica. Non solo dolce: in Campania il termine “zeppola” si riferisce anche alle pastacresciute, frittelle salate arricchite talvolta con acciughe o alghe marine.

In Puglia, la zeppola tradizionale si prepara con acqua, strutto, sale, farina, uova e scorza di limone grattugiata. Friggere nello strutto conferisce al dolce una consistenza più corposa e un aroma distintivo, mentre in alcune versioni al forno l’impasto viene decorato con crema pasticcera, crema al cioccolato o amarene sciroppate. Nel Salento, la crema al cioccolato sostituisce spesso le amarene, con l’aggiunta di zucchero a velo o granella di nocciole.

A Itri, nel Lazio, la zeppola è una piccola frittella lievitata con lievito di birra e fritta in olio d’oliva. Talvolta l’impasto prevede uova e latte, creando una consistenza più morbida. In Sicilia, invece, le zeppole assumono nomi e forme differenti: a Palermo si prepara la sfincia di San Giuseppe, nel Trapanese la sfincia; a Catania si consumano le crispelle di riso, cilindri fritti di circa 6-8 cm, ricoperti di miele d’arancio, zucchero a velo e cannella. A Siracusa, le zeppole autunnali sono spesso ripiene di ricotta, crema di pistacchio o nutella, accompagnate dal vino cotto.

La Calabria offre ulteriori varianti: a Cosenza le zeppole si preparano con acqua, farina, burro e uova, fritte e poi farcite con crema pasticcera e amarene; a Reggio Calabria vengono realizzati piccoli bignè con ricotta, zucchero, cannella e scorza di limone; a Catanzaro l’impasto può prevedere margarina o strutto, cotto al forno e farcito con ricotta e crema, decorato con ciliegina caramellata. Anche Molise e Abruzzo mantengono tradizioni simili, con leggere differenze negli ingredienti e nelle tecniche di cottura.

Durante il Carnevale, alcune regioni propongono zeppole con caratteristiche specifiche. In Sardegna, Marche, Umbria e Campania, le tzípulas o frisciòlas sono varianti tipiche: dolci fritti a base di farina, acqua e lievito, talvolta arricchiti con uova, latte, aromi come limone, arancio o liquori locali. Le tzípulas si consumano zuccherate o glassate, accompagnate da sagre e festività folcloristiche, come a Narbolia, in provincia di Oristano, dove ogni anno il Carnevale celebra questa tradizione antica. Le zeppole marchigiane si distinguono per la semplicità: ciambelle senza crema né amarene, aromatizzate con rum o anice e scorza di limone.

Un caso particolare sono le zeppole nocelletesi, dolce tradizionale di Carnevale a Nocelleto e nei comuni di Carinola, con radici che risalgono forse all’epoca romana. Realizzate in teglie di terracotta dette “ruoti”, le zeppole hanno dimensioni variabili e una superficie bucherellata, simile a un nido d’ape. L’impasto semplice di farina, acqua, uova e sugna si arricchisce oggi di cannella, vaniglia e anice, offrendo un’esperienza gustativa unica. La cottura avviene per induzione nel “ruoto” portato a temperatura specifica, mantenendo intatta la struttura e il sapore della tradizione.

Preparazione della Zeppola di San Giuseppe

Ingredienti:

  • 250 g di farina

  • 3 uova

  • 50 g di burro

  • 250 ml di acqua

  • 1 pizzico di sale

  • Scorza grattugiata di limone

  • Crema pasticcera q.b.

  • Amarene sciroppate q.b.

  • Zucchero a velo per decorare

  • Olio di semi per la frittura o burro per la versione al forno

Procedimento:

  1. Preparazione dell’impasto: In un pentolino, portare a ebollizione l’acqua con il burro, il sale e la scorza di limone. Aggiungere la farina tutta in una volta e mescolare energicamente fino a ottenere una palla compatta e liscia.

  2. Incorporazione delle uova: Lasciare raffreddare l’impasto qualche minuto, poi unire le uova una alla volta, lavorando fino a ottenere un composto omogeneo e lucido.

  3. Formatura: Con una sac à poche, formare ciambelle del diametro di circa 7-8 cm su carta da forno. Per la frittura, creare le forme su un vassoio; per la cottura al forno, disporre le ciambelle su una teglia imburrata.

  4. Cottura:

    • Frittura: Friggere in olio bollente fino a doratura uniforme, quindi scolare e far raffreddare su carta assorbente.

    • Forno: Cuocere a 180°C per 25-30 minuti fino a doratura.

  5. Farcitura e decorazione: Riempire il centro con crema pasticcera, guarnire con amarene sciroppate e spolverare con zucchero a velo.

La zeppola si sposa perfettamente con un caffè espresso, un vin santo leggero o un liquore dolce, come il limoncello, per esaltare le note agrumate e la morbidezza della crema. Nelle versioni siciliane o pugliesi, un bicchiere di vino cotto o di Malvasia locale aggiunge profondità e continuità con la tradizione territoriale.

La zeppola non è soltanto un dolce: è un legame tra passato e presente, tra cucina domestica e arte pasticcera, un simbolo di festa e di identità culturale che attraversa secoli di storia italiana, dalle strade di Napoli alle sagre di Sardegna, dalle feste religiose alle tavole di Carnevale. La sua preparazione richiede pazienza e attenzione ai dettagli, ma il risultato è una creazione dolciaria che racchiude sapori, aromi e tradizioni uniche.



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Zonclada: Il Dolce Medievale di Treviso che Racconta Secoli di Storia


Nel cuore della provincia di Treviso, tra le calli antiche e le piazze di un tempo medievale, si cela un tesoro gastronomico che ha attraversato i secoli: la zonclada, nota anche come balduzzo. Questo dolce, oggi quasi dimenticato, non è solo una semplice torta, ma un simbolo di tradizione, sapienza artigianale e cultura culinaria veneta. La sua fama era tale da essere offerta come dono agli ambasciatori di Cangrande I della Scala, testimonianza del prestigio che la città di Treviso attribuiva a questa preparazione. Il suo ripieno, ricco e aromatico, e la sua crosta accuratamente lavorata, riflettono una cura e un rigore che affondano le radici nel Medioevo.

Le origini della zonclada risalgono al XIII secolo, con citazioni negli Statuta del Comune di Treviso del 1313, che regolamentavano peso, qualità e modalità di preparazione. I giurati erano obbligati a controllarne l’esecuzione almeno tre volte a settimana, pena multe significative per chi non rispettava le prescrizioni. Il dolce doveva pesare una libbra (circa 339 grammi) e la qualità del latte utilizzato era fondamentale: non era consentito sottrarre il grasso per ricavarne burro o panna, per non compromettere il gusto e la consistenza della torta. L’attenzione al dettaglio era tale che anche la cottura doveva essere perfetta, a conferma di un legame stretto tra gastronomia e cultura locale.

Il nome “zonclada” trova origine nel latino iuncus, giunco, pianta che cresce abbondante sulle rive del Sile. Il riferimento non è casuale: la cagliata utilizzata veniva spurgata su stuoie di giunchi, simili a quelle impiegate per il formaggio fresco ionchata. La consistenza morbida e il colore giallo pallido del ripieno richiamano proprio quelli della giuncata, creando un legame tangibile tra ingredienti e tradizione locale.

Nel corso dei secoli, la zonclada ha conosciuto diverse varianti. A Belluno era diffusa già nel XVI secolo, mentre a Padova si ritrova testimonianza della sua presenza fino alla fine del XIX secolo. Col tempo, altre preparazioni dolci hanno preso il suo posto, ma il ripieno è rimasto un elemento autonomo, preparato e apprezzato anche senza la crosta di pasta. La ricetta antica prevedeva latte intero, uova, zucchero e spezie, con il miele come dolcificante nelle versioni più arcaiche. Successivamente si diffuse l’uso dello zucchero bianco di canna e l’aggiunta di aromi come zafferano, cannella, noce moscata, scorza di limone, idrolato di rosa o di fiori d’arancio, uva passa, pinoli e talvolta alcolici dolci. Alcune ricette riportano anche spezie più rare e raffinate, come macis, pepe nero, zenzero e chiodi di garofano, conferendo complessità e profondità al gusto del ripieno.

La preparazione tradizionale della zonclada prevede una crosta simile a quella della Tardiola descritta da Messisbugo nel 1549: una pasta matta realizzata con farina bianca, tuorlo, burro, acqua e un pizzico di sale. La lavorazione richiede attenzione e precisione. L’orlo può essere dritto oppure decorato, con due tecniche principali: a corda, ottenuta pizzicando la pasta in modo da sollevare e modellare il bordo; o a merlatura triangolare, praticando tagli obliqui con coltello affilato per formare una sequenza regolare di triangoli.

Il ripieno, cuore del dolce, merita un’attenzione particolare. La ricetta storica del 1313 prevedeva latte intero fresco, tuorlo e albume, zucchero semolato e un pizzico di sale. Prima dell’introduzione dello zucchero di canna, il miele rappresentava la base dolcificante, a seconda delle disponibilità locali: miele di acacia, castagno, tiglio o melata. Dal XVI secolo si diffuse la pratica di precuocere il ripieno, garantendo una consistenza uniforme e un aroma più intenso, prima di inserirlo nella base di pasta precedentemente cotta alla cieca.

Preparazione della Zonclada

Ingredienti:

  • 500 ml di latte intero fresco

  • 3 tuorli e 1 albume d’uovo

  • 120 g di zucchero di canna

  • 50 g di burro

  • Un pizzico di sale

  • 1 cucchiaino di zafferano

  • ½ cucchiaino di cannella in polvere

  • 30 g di pinoli

  • 50 g di uvetta di Corinto

  • Scorza grattugiata di 1 limone

  • 1 cucchiaio di idrolato di rosa (facoltativo)

  • Per la pasta: 250 g di farina bianca, 2 tuorli, 100 g di burro, acqua q.b., un pizzico di sale

Procedimento:

  1. Preparazione della pasta: In una ciotola, mescolare la farina con i tuorli e il burro fino a ottenere un impasto liscio. Aggiungere acqua quanto basta per formare una palla omogenea. Lasciare riposare 30 minuti in frigorifero.

  2. Precottura del ripieno: In un pentolino, scaldare il latte con il burro, lo zucchero e le spezie fino a farle sciogliere. Aggiungere i tuorli e l’albume sbattuti, mescolando continuamente fino a ottenere una crema densa. Unire uvetta, pinoli e scorza di limone. Lasciare raffreddare.

  3. Assemblaggio: Stendere la pasta in una teglia imburrata e formare un bordo decorativo a corda o merlatura triangolare. Versare il ripieno precotto e livellare con una spatola.

  4. Cottura: Cuocere in forno preriscaldato a 180°C per 35-40 minuti, fino a quando la superficie assume un colore dorato uniforme.

  5. Raffreddamento: Lasciare raffreddare la torta a temperatura ambiente prima di servire.

La zonclada può essere gustata sia tiepida che a temperatura ambiente, con un aroma intenso e avvolgente, capace di evocare secoli di storia.

Per esaltare le note aromatiche e la dolcezza equilibrata della zonclada, si consiglia di accompagnarla con un vino dolce locale, come il Torchiato di Fregona, o con una tisana a base di erbe aromatiche del Veneto, come camomilla o fiori d’arancio. Anche un caffè espresso dal gusto pieno può creare un contrasto piacevole con la morbidezza e la delicatezza della torta.

La zonclada rappresenta non solo una ricetta, ma un legame con le origini medievali di Treviso, un ponte tra cultura, gastronomia e memoria storica. La sua preparazione richiede pazienza e cura, ma il risultato è una torta che racchiude secoli di tradizione, un dolce che racconta la storia della città, dei suoi abitanti e della loro maestria artigianale.

Conservata nelle cucine moderne, reinterpretata da pasticceri e appassionati di cucina storica, la zonclada continua a sorprendere per il suo equilibrio tra dolcezza, aromi speziati e consistenza cremosa. La crosta friabile e il ripieno ricco di spezie e latticini creano un’esperienza gustativa unica, che permette di viaggiare indietro nel tempo senza muoversi dalla propria tavola.

Chiunque assaggi questa torta scopre un pezzo di storia culinaria, testimone della capacità dei pasticceri medievali di trasformare ingredienti semplici in preparazioni raffinate e durature. La zonclada, con il suo colore delicato, le spezie aromatiche e la morbidezza del ripieno, resta una delle preparazioni dolci più affascinanti del Veneto, un invito a riscoprire sapori e tecniche che rischiavano di andare perduti.


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Composta: storia, arte e tecniche di un dolce versatile


La composta è un elemento fondamentale della tradizione culinaria europea, un dolce che, pur nella sua apparente semplicità, racchiude secoli di storia, innovazione domestica e pratiche gastronomiche attente alla valorizzazione della frutta. Si tratta di una preparazione a base di frutta intera o a pezzi, cotta in sciroppo di zucchero o vino, talvolta arricchita con spezie come cannella, chiodi di garofano, vaniglia, scorza di limone o arancia, e con l’aggiunta di ingredienti secondari come mandorle tritate, uvetta, cocco grattugiato o canditi.

A differenza della confettura, la composta contiene una maggiore quantità di frutta e una minor concentrazione di zucchero, il che la rende meno calorica e più vicina al sapore originale della materia prima. La cottura è generalmente breve, giusto il tempo necessario a scaldare la frutta e amalgamarla con lo sciroppo, così da preservare fragranza, consistenza e colore. La versatilità della composta è uno dei suoi tratti distintivi: può essere servita calda o fredda, come dessert autonomo, o accompagnare piatti salati, dai formaggi alle carni, fino agli antipasti, ampliando il suo ruolo nella gastronomia domestica e professionale.

Le origini della composta risalgono al Medioevo, quando la frutta cotta con zucchero o miele era considerata non solo un piacere gastronomico, ma anche un rimedio per bilanciare gli effetti dell’umidità sul corpo, secondo la tradizione medica dell’epoca. Il termine deriva dal francese compôte e, a sua volta, dal latino composita, femminile del participio passato di componere, a indicare un insieme armonico di ingredienti.

In Inghilterra, nel periodo tardomedievale, la composta veniva spesso servita durante le feste, in particolare prima dell’ultimo piatto o come seconda portata in una sequenza di tre, accompagnata da un potage cremoso. Nel Rinascimento, la usanza era di servire la composta fredda a fine pasto, come dessert delicato, leggero e facilmente digeribile. La sua diffusione è legata alla praticità e ai costi contenuti degli ingredienti: frutta, zucchero o miele e spezie, senza necessità di latticini, la rendevano accessibile alle famiglie di diverse estrazioni sociali. In particolare, nelle comunità ebraiche europee, la composta diventò un alimento comune, grazie alla semplicità di preparazione e alla possibilità di consumarla senza violare le regole alimentari tradizionali.

Tra gli autori che hanno codificato la preparazione della composta troviamo Pellegrino Artusi, che ne inserì diverse varianti ne La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, descrivendo ricette con albicocche, pere, cotogne e perfino riso. Nella Francia rinascimentale, il termine compote indicava una purea di frutta, spesso di mela, con un contenuto zuccherino ridotto o nullo, a differenza della versione dolce diffusa in Italia.

La preparazione della composta richiede attenzione alla scelta della frutta, che deve essere matura ma soda, in modo da resistere alla breve cottura senza sfaldarsi. Gli ingredienti vengono tagliati in pezzi di dimensioni omogenee e messi a cuocere in sciroppo di acqua e zucchero, che può essere arricchito con vino bianco o rosso secondo la tradizione. Le spezie, inserite durante la cottura, conferiscono aromaticità senza coprire il sapore naturale della frutta. Per chi desidera aggiungere frutta secca, questa va ammollata in precedenza in acqua o liquore per ammorbidirla e integrarla armonicamente con il composto.

La cottura deve essere breve, di pochi minuti, sufficiente a creare una leggera densità nello sciroppo e ad amalgamare i sapori. Una volta pronta, la composta può essere consumata subito o conservata in frigorifero per pochi giorni, mantenendo consistenza e aroma. Alcune varianti prevedono la trasformazione della frutta in purè, altre lasciano i pezzi interi, valorizzando la forma e la consistenza originale.

Ricetta base della composta di frutta mista

Ingredienti:

  • 500 g di frutta matura a scelta (mele, pere, albicocche, prugne)

  • 150 g di zucchero

  • 100 ml di acqua

  • 50 ml di vino bianco o rosso (facoltativo)

  • Scorza di limone o arancia

  • Spezie a piacere: cannella, chiodi di garofano, vaniglia

  • 50 g di mandorle tritate o uvetta (facoltativo)

Preparazione:

  1. Lavare, sbucciare e tagliare la frutta in pezzi uniformi.

  2. In una casseruola, portare a bollore acqua, zucchero e vino, unendo scorza di agrumi e spezie.

  3. Aggiungere la frutta e cuocere a fuoco basso per 5-10 minuti, mescolando delicatamente.

  4. Se si aggiunge frutta secca, ammollarla precedentemente e unirla negli ultimi minuti di cottura.

  5. Lasciare raffreddare leggermente e servire calda o fredda, in coppette individuali o come accompagnamento a piatti salati.

La versatilità della composta consente anche preparazioni più elaborate: si può utilizzare come ripieno per torte e crostate, come accompagnamento a gelati o yogurt, o integrata in dessert al cucchiaio con panna o mascarpone. Alcuni chef moderni sperimentano l’uso di verdure dolci, come carote o zucca, miscelate con frutta, creando contrasti interessanti tra dolcezza e leggero sapore terroso.

La composta trova un eccellente equilibrio con tè leggeri, tisane floreali o infusi di frutta, che ne esaltano la freschezza. In ambito alcolico, vini dolci e aromatici, come Moscato o Malvasia, accompagnano perfettamente la frutta cotta e le spezie. Per preparazioni più ricche, come crostate o dessert al cucchiaio, panna fresca o yogurt bianco possono bilanciare la dolcezza e aggiungere cremosità, creando un insieme armonico e raffinato.

La composta rimane, dunque, un esempio di come la tradizione gastronomica possa conservare semplicità e gusto, valorizzando ingredienti locali e stagionali, mantenendo vive pratiche domestiche antiche e offrendo spunti per innovazioni moderne senza perdere il legame con la storia.


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Zuccherini montanari: storia, tradizione e arte dolciaria dell’Appennino tosco-emiliano

Gli zuccherini montanari rappresentano uno degli esempi più autentici della tradizione dolciaria dell’Appennino tra Emilia e Toscana. Questi biscotti, diffusi principalmente nelle province di Bologna, Modena, Prato e Firenze, sono un simbolo della cultura gastronomica delle colline tosco-emiliane, dove il cibo diventa mezzo di socializzazione, celebrazione e memoria storica. La loro storia affonda le radici nei secoli passati, quando le famiglie contadine e montanare creavano dolci speciali per le feste più importanti, dalle celebrazioni religiose come Natale e Pasqua ai matrimoni, che rappresentavano il culmine della vita sociale e comunitaria.

Gli zuccherini montanari sono caratterizzati da una friabilità unica, frutto di una lavorazione tradizionale che prevede un impasto semplice, simile alla pasta frolla, arricchito da aromi naturali come l’anice. La scelta di ingredienti genuini e locali non solo garantisce il gusto autentico, ma riflette anche le risorse disponibili nelle zone montane: farina di grano, uova fresche, burro o olio, zucchero e lievito. La differenza principale rispetto agli zuccherini bolognesi risiede nella glassatura, realizzata attraverso la bollitura dello zucchero con l’anice, che conferisce ai biscotti un aspetto lucido e un profumo avvolgente, distinguendoli nettamente dai loro cugini della pianura.

Il procedimento di preparazione è tanto semplice quanto rigoroso. L’impasto, dopo essere stato amalgamato fino a ottenere una consistenza omogenea, viene modellato in piccole forme ad anello o in varianti regionali a bastoncino o a ciambella, a seconda della tradizione locale. Ogni biscotto deve essere uniforme nelle dimensioni per garantire una cottura regolare. Una volta formati, i biscotti vengono sottoposti a cottura moderata in forno, preservando la delicatezza dell’impasto e la leggerezza che contraddistingue ogni morso. La fase finale, quella della glassatura, richiede attenzione: lo zucchero e l’anice vengono portati a bollore e i biscotti, ancora caldi, vengono immersi o spennellati, creando una copertura sottile e lucida che sigilla il profumo e dona la caratteristica fragranza.

La storia degli zuccherini montanari è intrinsecamente legata al contesto sociale delle montagne emiliane e toscane. Nel passato, preparare questi biscotti era un gesto di ospitalità: venivano offerti agli ospiti durante le feste o in occasione dei matrimoni, insieme a confetti e bomboniere, come simbolo di buon augurio e prosperità. L’aggettivo “montanari” è stato introdotto per distinguere questi biscotti dagli zuccherini bolognesi, simili nella forma ma diversi nella consistenza e privi della glassatura. Questa distinzione evidenzia la capacità delle tradizioni locali di adattare ricette simili ai contesti ambientali e culturali specifici, dando vita a variazioni che arricchiscono il patrimonio gastronomico regionale.

Oltre al valore storico e culturale, gli zuccherini montanari offrono un’esperienza sensoriale unica. Il profumo dell’anice, intenso ma equilibrato, si combina con la delicatezza della frolla e la dolcezza della glassatura, creando un contrasto armonioso tra morbidezza e fragranza croccante. Questo equilibrio li rende perfetti sia come dolce da accompagnamento al tè o al caffè sia come omaggio durante le festività o le ricorrenze familiari.

Dal punto di vista tecnico, la riuscita degli zuccherini montanari dipende dalla precisione nella scelta e nella lavorazione degli ingredienti. La farina deve essere setacciata per garantire un impasto senza grumi; il burro, se utilizzato, deve essere morbido ma non fuso, per consentire una lavorazione uniforme; le uova vanno incorporate gradualmente per assicurare coesione senza appesantire la frolla. Lo zucchero deve essere di qualità, e l’anice, se in semi o in estratto, va dosato con attenzione per non sovrastare il gusto delicato del biscotto. Anche la temperatura del forno e la durata della cottura sono determinanti: un calore eccessivo rischia di compromettere la friabilità e di scurire la glassatura.

Esistono diverse varianti regionali degli zuccherini montanari. Nell’Appennino bolognese e modenese, vengono spesso realizzati ad anello e glassati, mentre nell’Alto Mugello, in provincia di Firenze, si prediligono forme diverse, spesso più lunghe o a ciambella. A Vernio, in provincia di Prato, la tradizione locale prevede l’uso di lievito naturale e una glassatura più sottile, che permette di mantenere la fragranza del biscotto anche per giorni. Queste varianti testimoniano la ricchezza e la diversità della tradizione dolciaria, mostrando come una ricetta possa evolversi pur rimanendo legata alle origini.

Ricetta completa degli zuccherini montanari

Ingredienti:

  • 300 g di farina

  • 120 g di zucchero

  • 100 g di burro o 80 g di olio

  • 2 uova

  • 1 cucchiaio di semi di anice o estratto di anice

  • 1 cucchiaino di lievito per dolci

  • Un pizzico di sale

  • Zucchero per la glassatura

Preparazione:

  1. Setacciare la farina con il lievito e il sale.

  2. Lavorare il burro o l’olio con lo zucchero fino a ottenere una crema morbida.

  3. Aggiungere le uova una alla volta, incorporando bene ogni volta.

  4. Unire i semi o l’estratto di anice e amalgamare.

  5. Incorporare gradualmente la farina fino a ottenere un impasto compatto e lavorabile.

  6. Formare piccoli bastoncini o anelli secondo tradizione.

  7. Cuocere in forno preriscaldato a 160 °C per 20-25 minuti, fino a leggera doratura.

  8. Per la glassatura, bollire zucchero con un po’ d’acqua e anice, quindi spennellare i biscotti caldi.

  9. Lasciare raffreddare e servire o confezionare per le occasioni speciali.


Gli zuccherini montanari si sposano perfettamente con bevande calde leggere, come tè verde, camomilla o infusi di fiori, che ne valorizzano la delicatezza aromatica senza sovrastarla. Per chi predilige un accompagnamento alcolico, vini dolci e leggeri come il Malvasia dolce o un Moscato leggero offrono un equilibrio ideale tra fragranza e dolcezza, esaltando la glassatura e il profumo dell’anice.



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Zuccherini bolognesi: storia, tradizione e tecnica di preparazione


Gli zuccherini bolognesi, conosciuti nel dialetto locale come zucarén, rappresentano una delle espressioni più raffinate della tradizione dolciaria emiliana. Questi biscotti friabili hanno una storia che si intreccia strettamente con i riti matrimoniali e le festività locali, e la loro preparazione richiede una conoscenza accurata degli ingredienti e delle tecniche di lavorazione. Originari di Bologna e delle zone circostanti, gli zuccherini erano un tempo destinati ai matrimoni, prima che la diffusione dei confetti modificasse l’usanza di offrire dolci alle cerimonie nuziali. Ancora oggi, nella campagna bolognese e nelle famiglie che rispettano le tradizioni, questi biscotti continuano a essere associati ai festeggiamenti, simbolo di attenzione e cura nella preparazione.

La storia dei zuccherini bolognesi si lega indissolubilmente alla dimensione domestica e familiare: erano tradizionalmente preparati dalle donne delle famiglie degli sposi, esclusa la sposa, poiché si riteneva che il suo coinvolgimento avrebbe portato malaugurio. La realizzazione dei biscotti costituiva anche un momento di socializzazione: le donne delle due famiglie si incontravano, chiacchieravano e consolidavano legami attraverso la cura e la precisione richieste dalla lavorazione di ogni singolo anello. Questo aspetto sociale e rituale rende gli zuccherini un esempio perfetto di come il cibo possa essere veicolo di tradizione e simbolismo, oltre che di gusto.

Dal punto di vista tecnico, gli zuccherini bolognesi si basano su una pasta frolla di consistenza morbida, ma al contempo resistente, capace di mantenere la forma durante la cottura. Gli ingredienti principali comprendono farina, uova, zucchero vanigliato, burro e scorza di limone grattugiata. Alcune varianti includono l’uso della fecola di patate, che conferisce maggiore leggerezza all’impasto, o l’aggiunta di mandorle lievemente tostate, che arricchiscono il profilo aromatico e conferiscono un leggero contrasto di texture. In alcune versioni più semplici o povere, l’aroma di limone e vaniglia può essere assente, ma il risultato rimane comunque equilibrato grazie alla precisione nella lavorazione.

La tecnica di formatura degli zuccherini richiede grande attenzione: l’impasto viene ridotto in sottili bastoncini, che vengono poi ripiegati a formare un piccolo anello intorno a un dito e chiusi con cura. La dimensione uniforme e la regolarità del biscotto sono essenziali, poiché ogni irregolarità può compromettere l’aspetto estetico finale. Questa fase richiede manualità e pazienza, soprattutto quando si prepara una grande quantità per un matrimonio o un’occasione speciale, poiché la lavorazione degli anelli è meticolosa e richiede diverse ore di lavoro.

La cottura rappresenta un momento cruciale: gli zuccherini devono essere infornati a temperatura moderata, non superiore ai 160 °C, per evitare che assumano un colore eccessivamente dorato. L’obiettivo è mantenere un pallore delicato, simbolo di fragranza e leggerezza. Durante la cottura, la pasta si rassoda senza perdere la friabilità interna, ottenendo così la tipica consistenza che caratterizza questi biscotti. Una volta raffreddati, gli zuccherini vengono spolverati con zucchero a velo, che aggiunge dolcezza e conferisce un aspetto elegante e uniforme.

Tradizionalmente, dopo la cottura, gli zuccherini vengono selezionati con cura: quelli dalla forma imperfetta vengono scartati, mentre i migliori vengono confezionati in piccoli sacchetti da distribuire agli invitati. La scelta di offrire un numero dispari di biscotti in ciascun sacchetto si lega a antiche credenze legate alla fortuna e alla prosperità. La distribuzione dei biscotti avviene al termine del pranzo di nozze, rappresentando un gesto simbolico di condivisione e buon auspicio per gli ospiti.

Esiste anche una variante romagnola degli zuccherini, chiamata zucaren, che si differenzia per forma e ingredienti. Questi biscotti non vengono più realizzati ad anello, ma assumono forme varie, spesso ispirate alla ciambella romagnola. Nell’impasto viene impiegato lo strutto al posto del burro, conferendo maggiore friabilità e un aroma più intenso. La superficie dei biscotti viene arricchita con granella di zucchero, codette o mandorle macinate grossolanamente, creando una texture più rustica e visivamente accattivante. Questa variante evidenzia l’adattamento dei metodi tradizionali alle caratteristiche locali e alle preferenze dei consumatori, pur mantenendo il legame con la storia e la simbologia originaria.

Dal punto di vista culinario, la preparazione degli zuccherini bolognesi richiede equilibrio tra ingredienti e precisione nella tecnica. La farina deve essere setacciata per garantire una consistenza uniforme; il burro deve essere morbido ma non sciolto, per permettere una lavorazione omogenea; le uova vanno aggiunte gradualmente per ottenere un impasto elastico e facilmente modellabile. La scorza di limone deve essere grattugiata finemente, evitando di includere la parte bianca, che conferirebbe amaro. Gli zuccheri, sia vanigliato che a velo, devono essere di alta qualità per esaltare gli aromi naturali senza coprirli.

La cottura lenta e a temperatura moderata è fondamentale per sviluppare la giusta friabilità senza compromettere la leggerezza interna. Durante la fase di raffreddamento, il biscotto consolida la sua forma e la superficie acquisisce la delicatezza tipica degli zuccherini bolognesi. Il passaggio finale, la spolverata di zucchero a velo, aggiunge un dettaglio estetico e una piacevole nota di dolcezza che bilancia il gusto delicato dell’impasto.

Ricetta completa degli zuccherini bolognesi

Ingredienti:

  • 250 g di farina

  • 150 g di burro

  • 100 g di zucchero vanigliato

  • 2 uova intere

  • Scorza grattugiata di un limone

  • 50 g di fecola di patate (opzionale)

  • Mandorle tritate (facoltativo)

  • Zucchero a velo per spolverare

Preparazione:

  1. Lavorare il burro con lo zucchero vanigliato fino a ottenere una crema morbida.

  2. Aggiungere le uova, una alla volta, continuando a mescolare.

  3. Incorporare la farina setacciata con la fecola e la scorza di limone. Amalgamare fino a ottenere un impasto omogeneo.

  4. Se si desidera, unire le mandorle tritate per arricchire il gusto e la texture.

  5. Formare dei piccoli bastoncini e piegarli ad anello intorno a un dito, chiudendo con attenzione.

  6. Disporre gli anelli su una teglia rivestita di carta forno e cuocere a 160 °C per 20-25 minuti.

    Una volta raffreddati, spolverare con zucchero a velo e conservare in contenitori ermetici.


Gli zuccherini bolognesi si prestano a essere accompagnati da bevande delicate che ne esaltino la fragranza senza coprirla. Un vino dolce leggero, come un Malvasia dolce o un Moscato bianco, si armonizza perfettamente con la friabilità e l’aroma di limone. Per chi preferisce bevande calde, un tè verde o un infuso di fiori delicati mette in risalto la dolcezza naturale del biscotto, creando un equilibrio tra gusto e aroma.



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Dolceriso del Moro: tradizione, storia e sapori di Vigevano

Il Dolceriso del Moro è uno dei dolci più rappresentativi della tradizione dolciaria lombarda, con radici storiche che affondano nel tardo Quattrocento. La sua invenzione è attribuita a Beatrice d’Este, duchessa di Milano, che nel 1491, nella primavera di quell’anno, volle deliziare il consorte Ludovico il Moro con una preparazione raffinata e aromatica. Questo dolce non è solo un dessert, ma un vero e proprio simbolo della fusione tra cultura gastronomica e storia dinastica, incarnando l’eleganza delle corti italiane del Rinascimento.

La sua storia racconta di un esperimento culinario che unì due mondi: la tradizione partenopea, legata alla pastiera di cui Beatrice era stata abituata a gustare fin dall’infanzia, e i prodotti locali della Lombardia. Il riso, ingrediente principale del dolce, era coltivato nelle campagne intorno a Vigevano, che Ludovico aveva incentivato con riforme agricole e politiche di irrigazione avanzate per l’epoca. La scelta di questo cereale non era casuale: la consistenza e la dolcezza naturale del riso, unite a una lenta cottura e a un’attenta lavorazione, permettevano di ottenere un cuore morbido e profumato, perfetto per completare l’involucro di pasta frolla che custodisce il ripieno.

Il Dolceriso del Moro si distingue per il suo ripieno cremoso e aromatico, che combina il riso ricotto a canditi, pinoli e mandorle. L’aggiunta dell’acqua di rose, elemento inusuale nelle preparazioni lombarde ma presente nelle influenze culinarie napoletane, conferisce un aroma delicato e floreale, simbolo di armonia e prosperità. Secondo la tradizione, l’uso dell’acqua di rose era pensato per favorire la concordia nella coppia ducale, riflettendo l’attenzione delle corti rinascimentali non solo alla qualità del cibo, ma anche al suo significato simbolico e rituale.

Il processo di preparazione richiede pazienza e precisione. Inizia con la cottura del riso in acqua e zucchero fino a ottenere una consistenza cremosa. Il riso deve essere cotto lentamente, mescolando continuamente per evitare che si attacchi al fondo e per sviluppare la giusta armonia tra dolcezza e profumo. Una volta pronto, il riso viene arricchito con canditi tritati, pinoli leggermente tostati e mandorle sminuzzate, e infine aromatizzato con qualche cucchiaio di acqua di rose. Questo ripieno viene lasciato raffreddare completamente prima di procedere all’involucro di pasta frolla.

La pasta frolla deve essere preparata con ingredienti freschi e di qualità: farina, burro, zucchero e uova, lavorati con attenzione per ottenere una consistenza morbida ma resistente. L’impasto viene steso con uno spessore uniforme e tagliato per formare le basi e le coperture dei dolci individuali. Il ripieno di riso viene posto al centro e l’involucro sigillato con cura, assicurandosi che non vi siano fessure attraverso le quali il riso potrebbe fuoriuscire durante la cottura. Il Dolceriso viene quindi cotto in forno a temperatura moderata fino a doratura della pasta, conservando però la morbidezza del cuore interno.

Il risultato è un dolce che unisce croccantezza esterna e morbidezza interna, con aromi delicati ma ben definiti. I canditi aggiungono note fruttate e leggermente acidule, i pinoli e le mandorle apportano texture e profondità, mentre l’acqua di rose lega tutti gli elementi con un profumo sottile e persistente. Ogni boccone restituisce la sensazione di un dessert raffinato, capace di trasportare chi lo gusta nel Rinascimento lombardo, tra corti, banchetti e raffinatezza aristocratica.

Abbinamento consigliato: il Dolceriso del Moro si presta a essere accompagnato da vini dolci o liquorosi che non sovrastino la delicatezza del riso e dei canditi. Un passito di Pantelleria, un Moscato d’Asti leggermente frizzante o un Vin Santo possono esaltare gli aromi floreali e la cremosità del ripieno. Per chi preferisce bevande calde, una tazza di tè nero aromatizzato alla vaniglia o un infuso leggermente floreale si sposano perfettamente con l’acqua di rose, esaltando la complessità aromatica senza coprirla.

Il Dolceriso del Moro è più di un semplice dessert: è un testimone della cultura gastronomica lombarda, un dolce che racconta una storia di corte, di eleganza e di attenzione ai dettagli. Prepararlo richiede rispetto per gli ingredienti, precisione nelle cotture e cura nella lavorazione, e gustarlo significa apprezzare un pezzo di storia italiana che arriva fino ai giorni nostri con tutto il suo fascino.

Ogni fase della preparazione è un atto di rispetto verso la tradizione: dalla cottura lenta del riso fino alla tostatura leggera di pinoli e mandorle, dalla scelta dei canditi fino alla chiusura attenta della pasta frolla, nulla può essere lasciato al caso. Solo così il dolce mantiene il giusto equilibrio tra texture, aromi e dolcezza, restituendo l’esperienza di un dessert pensato per deliziare sia il palato sia gli occhi.

Il Dolceriso del Moro continua a essere preparato oggi nelle pasticcerie di Vigevano e in molte case lombarde, mantenendo intatta la ricetta originaria e la sua capacità di evocare la storia della corte milanese. Le nuove generazioni, pur modificando talvolta le quantità o introducendo leggere varianti moderne, rispettano la struttura classica del dolce: riso cremoso, involucro di pasta frolla, arricchimenti di frutta secca e aromi floreali. Questo equilibrio tra rispetto della tradizione e adattamento contemporaneo lo rende un dolce unico e ancora oggi celebrato.

In conclusione, il Dolceriso del Moro rappresenta un esempio perfetto di come la storia, la cultura e la gastronomia si intreccino nella tradizione italiana, offrendo un’esperienza sensoriale completa, capace di raccontare un’epoca, un luogo e la passione di chi lo prepara con attenzione.

Ricetta completa del Dolceriso del Moro

Ingredienti:

  • 250 g di riso

  • 100 g di zucchero

  • 50 g di pinoli

  • 50 g di mandorle

  • 50 g di canditi misti

  • 2 cucchiai di acqua di rose

  • 250 g di farina

  • 125 g di burro

  • 80 g di zucchero a velo

  • 1 uovo intero

Preparazione:

  1. Cuocere il riso in acqua bollente zuccherata fino a ottenere una consistenza cremosa.

  2. Tostare leggermente pinoli e mandorle e tritare grossolanamente.

  3. Mescolare il riso cotto con i canditi, la frutta secca e l’acqua di rose. Lasciare raffreddare.

  4. Preparare la pasta frolla impastando farina, burro, zucchero a velo e uovo fino a ottenere un impasto omogeneo.

  5. Stendere la frolla, ritagliare le basi dei dolci e aggiungere il ripieno al centro.

  6. Chiudere i dolci con un altro disco di frolla, sigillando bene i bordi.

  7. Cuocere in forno preriscaldato a 180°C per 25-30 minuti fino a doratura.

Accompagnare con un vino dolce come Moscato d’Asti o Passito di Pantelleria. In alternativa, un tè aromatizzato alla vaniglia esalta il profumo dell’acqua di rose.



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Delizia al Limone: Freschezza e Raffinatezza della Pasticceria Sorrentina


La Delizia al Limone rappresenta uno dei vertici della pasticceria campana, un dessert capace di combinare freschezza, cremosità e un gusto deciso di agrumi in un equilibrio perfetto. Originaria della Costiera Sorrentina e diffusa successivamente in tutta la Campania, questa torta ha conquistato gli estimatori della pasticceria italiana grazie alla sua leggerezza, alla morbidezza del pan di Spagna e alla vivacità del limone, ingrediente centrale che ne definisce l’identità. Non si tratta soltanto di un dolce al limone, ma di una preparazione che unisce tecnica, attenzione agli ingredienti e rispetto per la tradizione.

La Delizia al Limone nasce a Sorrento nel 1978, creata dal pasticciere Carmine Marzuillo. L’idea era quella di realizzare un dessert in cui la freschezza degli agrumi fosse protagonista senza compromettere la struttura e la consistenza della torta. Il risultato fu una base di pan di Spagna leggermente imbevuta di sciroppo al limoncello, farcita e ricoperta da una crema al limone vellutata e morbida.

Il dolce si diffuse rapidamente nelle pasticcerie della Costiera Amalfitana e della Penisola Sorrentina, diventando un simbolo della pasticceria locale. Nel tempo si sono sviluppate varianti monoporzione, spesso a forma semisferica, che richiamano la tradizione artistica e gastronomica della regione. In alcune versioni, la monoporzione viene decorata con una fragolina di bosco, creando un contrasto cromatico e gustativo che rende la presentazione particolarmente elegante.

Il riconoscimento della Delizia al Limone come Prodotto Agroalimentare Tradizionale (P.A.T.) ha consolidato il suo ruolo nella cucina campana, assicurando che la preparazione rispetti standard specifici per quanto riguarda ingredienti, tecniche e qualità. La sua fama ha superato i confini regionali, diventando un dessert apprezzato in tutta Italia e all’estero, soprattutto per chi cerca dolci freschi e aromatici, in grado di coniugare semplicità e raffinatezza.

Ingredienti

Per una Delizia al Limone da 6-8 porzioni, occorrono i seguenti ingredienti:

Per il pan di Spagna:

  • Uova: 4 intere

  • Zucchero semolato: 120 g

  • Farina 00: 120 g

  • Fecola di patate: 30 g

  • Scorza di limone grattugiata: 1

  • Un pizzico di sale

Per lo sciroppo al limoncello:

  • Limoncello: 50 ml

  • Acqua: 50 ml

  • Zucchero: 50 g

Per la crema al limone:

  • Latte fresco intero: 250 ml

  • Panna fresca: 250 ml

  • Tuorli: 4

  • Zucchero: 120 g

  • Scorza di limone: 1

  • Succo di limone: 60 ml

  • Gelatina in fogli: 6 g

Per la decorazione:

  • Fragoline di bosco: q.b.

  • Zucchero a velo: q.b.

Preparazione

Passo 1: Preparare il pan di Spagna

Separate i tuorli dagli albumi. Montate i tuorli con metà dello zucchero fino a ottenere un composto chiaro e spumoso. In una ciotola separata, montate gli albumi con un pizzico di sale e lo zucchero rimanente fino a ottenere una meringa soda. Incorporate delicatamente la farina setacciata e la fecola al composto di tuorli, quindi unite gli albumi montati con movimenti dal basso verso l’alto per non smontarli. Versate l’impasto in uno stampo imburrato e infarinato e cuocete in forno preriscaldato a 180°C per 25-30 minuti. Lasciate raffreddare completamente prima di sformare.

Passo 2: Preparare lo sciroppo

In un pentolino, scaldate acqua e zucchero fino a completa dissoluzione. Lasciate intiepidire e aggiungete il limoncello. Con questo sciroppo imbevete il pan di Spagna, distribuendolo uniformemente per garantire una base morbida e aromatica.

Passo 3: Preparare la crema al limone

Ammollate la gelatina in acqua fredda per circa 10 minuti. In un pentolino, scaldate il latte con la scorza di limone, senza portare a ebollizione. In una ciotola, montate i tuorli con lo zucchero fino a ottenere un composto chiaro, quindi incorporate lentamente il succo di limone e il latte caldo filtrato. Riportate sul fuoco basso e mescolate fino a quando la crema si addensa leggermente. Togliete dal fuoco e incorporate la gelatina strizzata. Lasciate raffreddare.

Montate la panna a neve ferma e incorporatela delicatamente alla crema al limone raffreddata, creando un composto omogeneo, liscio e cremoso. Questa operazione richiede attenzione per mantenere la leggerezza della crema.

Passo 4: Composizione del dolce

Tagliate il pan di Spagna in strati orizzontali, se desiderate un dolce a più livelli. Distribuite la crema al limone tra uno strato e l’altro, ricoprendo infine tutta la superficie e i bordi con la stessa crema. Per le monoporzioni semisferiche, versate la crema in stampi appositi e livellate bene. Riponete in frigorifero per almeno 3-4 ore, permettendo alla crema di compattarsi e agli aromi di amalgamarsi perfettamente.

Passo 5: Decorazione

Al momento del servizio, sformate con cura la Delizia al Limone. Decorate la superficie con fragoline di bosco fresche e, se desiderate, spolverizzate con zucchero a velo per un effetto elegante e delicato.

Esistono diverse varianti della Delizia al Limone, adattate alla stagionalità e alla creatività dei pasticceri:

  • Delizia con pasta sfoglia: alcune versioni utilizzano una base di sfoglia al posto del pan di Spagna, conferendo maggiore croccantezza.

  • Delizia con crema pasticcera al limone: per un gusto più deciso, si sostituisce parte della crema con una versione tradizionale di crema pasticcera aromatizzata al limone.

  • Monoporzioni decorate: oltre alla fragolina, è possibile arricchire con cioccolato bianco fuso, scorza di limone candita o foglie di menta per una presentazione più raffinata.

Abbinamenti Consigliati

  • Vini da dessert: un Moscato d’Asti fresco o un vino bianco dolce della Campania accompagnano perfettamente la freschezza del limone senza coprirne l’aroma.

  • Caffè: espresso o macchiato valorizzano la dolcezza della crema e il contrasto con l’acidità degli agrumi.

  • Tè verde o tisane agli agrumi: serviti leggermente tiepidi, esaltano la nota agrumata e donano leggerezza al dessert.

  • Gelato alla vaniglia o panna fresca: aggiunge un contrasto di temperatura e consistenza che rende il dessert più ricco e avvolgente.

La Delizia al Limone è più di un semplice dolce: rappresenta un’eccellenza della pasticceria sorrentina e campana, capace di coniugare semplicità, eleganza e freschezza in ogni morso. La combinazione di pan di Spagna, crema al limone e sciroppo al limoncello offre un’esperienza completa, dove la morbidezza, la leggerezza e il gusto degli agrumi si armonizzano perfettamente.

Questo dessert è ideale per occasioni speciali, buffet, feste e anche come dolce monoporzione raffinata, capace di sorprendere per equilibrio di sapori e cura nella presentazione. Preparare una Delizia al Limone richiede attenzione ai dettagli, precisione nella cottura e nella composizione degli strati, ma il risultato finale ripaga ampiamente ogni sforzo, regalando un dolce fresco, cremoso e aromatico, perfetto per chi apprezza la pasticceria italiana autentica.



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