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La scoperta dei dolcificanti artificiali: la storia della saccarina

La storia dei dolcificanti artificiali è strettamente legata a un episodio fortuito della chimica del XIX secolo. Il primo dolcificante artificiale disponibile in commercio, la saccarina, nacque per caso nel 1879 grazie a Constantin Fahlberg, un chimico tedesco che lavorava alla John Hopkins University sui derivati del catrame di carbone.

Fahlberg era impegnato in esperimenti sui composti chimici derivati dal catrame di carbone quando, durante una pausa pranzo, notò qualcosa di sorprendente: il cibo che stava mangiando aveva un sapore insolitamente dolce. Dopo aver osservato che anche le sue mani erano dolci, Fahlberg comprese che la causa della dolcezza non era il cibo stesso, ma una sostanza con cui era venuto in contatto durante gli esperimenti.

Questo fu il momento decisivo: riconoscere che un prodotto chimico del catrame di carbone poteva sostituire lo zucchero. L’ingegno di Fahlberg lo spinse a continuare gli esperimenti, perfezionando la sostanza e confermandone la sicurezza e la dolcezza. Alla fine brevettò la saccarina e aprì una fabbrica per produrla su scala industriale, gettando le basi per l’industria moderna dei dolcificanti artificiali.

La saccarina trovò subito un ruolo importante nella storia alimentare. Durante la Prima Guerra Mondiale, lo zucchero, risorsa preziosa e limitata, diventò scarsissimo. In questo contesto, la saccarina si affermò come un sostituto conveniente e dolce, utilizzata per addolcire cibi e bevande, pur contenendo poche calorie. La sua capacità di replicare la dolcezza dello zucchero senza l’apporto calorico lo rese un ingrediente molto apprezzato, soprattutto in tempi di scarsità alimentare.

Negli anni Sessanta, tuttavia, la saccarina fu al centro di un acceso dibattito scientifico. Esperimenti condotti sui ratti mostrarono che il consumo di saccarina poteva provocare cancro alla vescica nei roditori. Questa scoperta generò timori significativi, spingendo le autorità statunitensi a richiedere, nel 1977, che tutti i prodotti contenenti saccarina riportassero un’etichetta di avvertenza sul rischio di cancro.

Il dibattito continuò per decenni, fino a quando, all’inizio del nuovo millennio, gli studi scientifici dimostrarono che gli esseri umani metabolizzano la saccarina in modo molto diverso dai ratti. Questo portò alla revoca dell’obbligo di etichettatura, confermando la sicurezza del dolcificante per il consumo umano.

La storia della saccarina non riguarda solo la chimica, ma anche le dinamiche politiche e istituzionali. Il direttore del Bureau of Chemical della FDA, all’epoca, riteneva che la saccarina fosse nociva per la salute, sostenendo che fosse in pratica una sostanza derivata dal catrame di carbone e non un alimento naturale come lo zucchero vegetale. Propose quindi di vietarne l’uso.

Il presidente Franklin D. Roosevelt, noto per essere un consumatore della saccarina, definì questa posizione “idiota” e nominò una commissione per rivedere le politiche governative sugli additivi alimentari. La carriera del direttore della FDA subì le conseguenze della controversia, mentre la saccarina continuò a essere utilizzata su larga scala, consolidando il suo ruolo nella dieta americana e mondiale.

Oggi i dolcificanti artificiali sono presenti in migliaia di prodotti, dai cibi confezionati alle bevande, dai dolci industriali ai medicinali. La saccarina, in particolare, ha aperto la strada a numerose altre sostanze dolcificanti a basso contenuto calorico, come l’aspartame, il sucralosio e l’acesulfame K. L’obiettivo comune è quello di fornire dolcezza senza aumentare l’apporto calorico, un’esigenza crescente nella società moderna, attenta al controllo del peso e al benessere metabolico.

La scoperta della saccarina portò fama e ricchezza a Constantin Fahlberg, ma non senza controversie personali. Il suo collaboratore e conoscente, proprietario del laboratorio dove Fahlberg condusse gli esperimenti, si sentì tradito perché non fu coinvolto negli affari legati al brevetto. In seguito dichiarò pubblicamente:

“Fahlberg è un mascalzone. Mi disgusta sentire il mio nome menzionato insieme al suo.”

Questa disputa mette in luce un aspetto spesso trascurato nella storia della scienza: la scoperta di un nuovo prodotto o di una sostanza rivoluzionaria non è mai priva di conflitti umani, interessi economici e questioni di proprietà intellettuale.

La saccarina è quindi il primo dolcificante artificiale prodotto industrialmente, e la sua scoperta ha segnato un punto di svolta nella chimica alimentare e nella nutrizione. Ha dimostrato che sostanze chimiche possono sostituire ingredienti naturali in modo sicuro e conveniente, aprendo la strada a innovazioni successive.

Nonostante le controversie iniziali, il suo impatto sulla dieta moderna è enorme: ha reso possibile ridurre l’apporto calorico senza rinunciare alla dolcezza, ha contribuito alla nascita di bevande light e cibi “dietetici”, e ha stimolato una nuova attenzione alla sicurezza e alla regolamentazione degli additivi alimentari.

La vicenda di Constantin Fahlberg, tra genio scientifico e tensioni personali, testimonia anche l’influenza della fortuna e della prontezza di spirito nella storia delle scoperte: senza quel momento fortuito durante la pausa pranzo, il mondo probabilmente avrebbe dovuto attendere ancora anni prima di beneficiare dei dolcificanti artificiali.

La scoperta della saccarina è una storia di casualità, ingegno e controversie scientifiche e sociali. Dalla mano “accidentalmente dolce” di Fahlberg alle battaglie politiche e sanitarie del XX secolo, fino all’uso globale nei prodotti alimentari e medicinali, il percorso del primo dolcificante artificiale racconta molto sulle relazioni tra scienza, società e mercato. Oggi, consumare un dolce senza zucchero o una bevanda light significa in un certo senso rendere omaggio a quell’episodio fortuito di curiosità chimica che cambiò per sempre il modo in cui percepiamo la dolcezza.



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Panna Cotta – La raffinatezza italiana al cucchiaio

La panna cotta è uno dei dolci al cucchiaio più eleganti e versatili della cucina italiana, apprezzata per la sua consistenza setosa, la delicatezza del gusto e la capacità di essere accompagnata da infinite varianti aromatiche. La semplicità degli ingredienti — panna, zucchero, latte e gelificante — contrasta con la complessità della tecnica: ottenere una struttura morbida ma compatta, liscia e lucida, richiede attenzione ai dettagli, precisione nelle dosi e tempi di raffreddamento rigorosi. Questo dolce, pur essendo oggi diffuso in tutto il mondo, mantiene un legame profondo con le tradizioni culinarie piemontesi e con la cultura italiana del dessert, che privilegia ingredienti freschi e materie prime di qualità.

La panna cotta, come la conosciamo oggi, è probabilmente nata in Piemonte nei primi decenni del Novecento, anche se le sue radici affondano in antiche preparazioni a base di latte e panna, tipiche della cucina domestica italiana. Giacomo Leopardi, durante un soggiorno a Bologna nel 1827, menzionava un dessert composto da “fior di latte o panna, gelatina non salata e zucchero a piacere”, dimostrando come l’idea di un dolce delicato a base di latte fosse già diffusa nel XIX secolo.

Secondo la tradizione moderna, la panna cotta fu perfezionata negli anni Sessanta da Ettore Songia, chef di un ristorante a Cuneo, che ne codificò la preparazione con l’aggiunta della gelatina per ottenere la giusta consistenza. Alcune teorie attribuiscono l’invenzione a una donna ungherese residente nelle Langhe, mentre altri collegano il dolce a preparazioni nordiche molto antiche, come il moos hwit descritto dal danese Henrik Harpestræng nel XIII secolo.

Oggi, la panna cotta è conosciuta e apprezzata in tutto il mondo, dalla Francia al Giappone, dove è considerata un dessert di tendenza. La sua versatilità la rende perfetta sia come fine pasto raffinato, sia come dolce da buffet, grazie alla possibilità di essere aromatizzata e decorata in innumerevoli modi.

La panna cotta si basa su pochi ingredienti essenziali, ma la loro qualità fa la differenza:

  • Panna fresca: garantisce cremosità e struttura.

  • Latte intero: ammorbidisce l’impasto, rendendo la consistenza più leggera.

  • Zucchero semolato: dolcifica senza coprire gli aromi.

  • Gelificante: tradizionalmente colla di pesce (gelatina) o albume d’uovo, indispensabile per ottenere la consistenza tipica del dolce.

  • Aromi: semi di vaniglia, scorze di agrumi o essenze naturali, che personalizzano la preparazione.

A questi ingredienti di base si possono aggiungere accompagnamenti come salse ai frutti di bosco, caramello, cioccolato, coulis di frutta o spezie leggere, che arricchiscono la presentazione e il gusto.

Preparazione passo passo

Ingredienti per 4 porzioni

  • 400 ml di panna fresca

  • 100 ml di latte intero

  • 100 g di zucchero

  • 8 g di gelatina in fogli

  • Semi di 1 bacca di vaniglia o 1 cucchiaino di estratto di vaniglia

Procedimento

  1. Ammollare la gelatina
    Mettere i fogli di gelatina in acqua fredda per circa 10 minuti, finché diventano morbidi e flessibili.

  2. Scaldare panna e latte
    In un pentolino, unire panna, latte e zucchero. Riscaldare a fuoco medio fino a sfiorare il bollore, mescolando di tanto in tanto per sciogliere completamente lo zucchero.

  3. Aromatizzare
    Aggiungere i semi della bacca di vaniglia o l’estratto. Lasciare in infusione per qualche minuto, quindi filtrare se necessario.

  4. Incorporare la gelatina
    Strizzare la gelatina ammollata e unirla al composto caldo, mescolando fino a completo scioglimento.

  5. Versare negli stampini
    Distribuire la panna cotta in coppette, stampi individuali o bicchieri da dessert. Lasciare raffreddare a temperatura ambiente per 10-15 minuti.

  6. Raffreddare in frigorifero
    Trasferire gli stampi in frigorifero per almeno 4 ore, fino a che la panna cotta risulti completamente rassodata.

  7. Servire
    Al momento di servire, si può sformare il dolce su piattini o accompagnarlo direttamente nel bicchiere, guarnendo con frutti di bosco, coulis di frutta, salsa al cioccolato o caramello.

La panna cotta si presta a numerose interpretazioni:

  • Al cioccolato: sostituire 50 ml di panna con cioccolato fondente fuso, per un dessert più intenso.

  • Al caffè: aggiungere 2 cucchiaini di caffè solubile al composto prima della gelatina, ideale per gli amanti del gusto deciso.

  • Agrumi e spezie: infondere scorze di arancia o limone e un pizzico di cannella per un tocco aromatico natalizio.

  • Versione vegana: utilizzare panna vegetale (soia, riso o cocco) e agar-agar come gelificante, per ottenere una consistenza analoga senza derivati animali.

Il successo della panna cotta deriva dal contrasto tra delicatezza e struttura: la superficie liscia e lucida anticipa la morbidezza setosa del cuore. Il sapore di panna fresca e vaniglia, leggermente dolce, crea una base neutra e raffinata, perfetta per accogliere salse e frutti freschi. La consistenza deve essere uniforme, senza grumi, e cedere al cucchiaio senza opporre resistenza, fondendosi in bocca con leggerezza.

La panna cotta, grazie alla sua neutralità, si abbina a numerosi ingredienti e bevande:

  • Salse e coulis: frutti di bosco, fragole, lamponi, caramello, cioccolato o caffè.

  • Frutta fresca: lamponi, mirtilli, mango o arance.

  • Bevande: vini dolci come Moscato d’Asti, Passito di Pantelleria o Vin Santo; tè leggeri; caffè espresso.

Negli ultimi decenni, la panna cotta ha conquistato le cucine di tutto il mondo, divenendo un simbolo della pasticceria italiana moderna. La sua preparazione semplice, combinata alla possibilità di personalizzarla con aromi, frutta e salse, l’ha resa un dessert versatile, adatto sia alle occasioni eleganti sia alle colazioni e merende gourmet.

La panna cotta non è solo un dolce: è un esempio di come la cucina italiana sappia trasformare pochi ingredienti in un’esperienza sensoriale complessa e armoniosa, capace di adattarsi a gusti diversi senza perdere la sua eleganza naturale.

La panna cotta unisce storia, tecnica e gusto: dalla sua origine piemontese, passando per le interpretazioni moderne, continua a rappresentare la raffinata semplicità della pasticceria italiana. La morbidezza al cucchiaio, il profumo delicato di vaniglia e la capacità di accogliere aromi e salse rendono questo dolce un classico senza tempo, amato e riconosciuto in tutto il mondo. Ogni porzione di panna cotta racconta la tradizione, l’arte della tecnica e l’eleganza della semplicità.



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Pangiallo – Il dolce romano che celebra il sole e la festa del Natale


Tra i dolci tradizionali del Lazio, il Pangiallo occupa un posto di rilievo, incarnando storia, simbolismo e gusto. La sua origine affonda le radici nell’antica Roma, quando, durante il solstizio d’inverno, i Romani distribuivano dolci dorati per celebrare il ritorno del sole. Questo gesto rituale, carico di significato, rappresentava un invito alla luce, alla prosperità e alla speranza, in un periodo dell’anno in cui le giornate erano più corte e fredde.

Nel corso dei secoli, il Pangiallo si è trasformato in un dolce natalizio vero e proprio, diffondendosi nella cucina romana e nel Lazio centrale, pur mantenendo intatto il legame simbolico con le feste solenni e la convivialità familiare. La sua composizione, ricca di frutta secca e miele, racconta una storia di economia domestica, tradizione e ingegno, in cui ingredienti semplici venivano lavorati per ottenere un dolce nutriente e duraturo, capace di accompagnare le feste più importanti dell’anno.

Il Pangiallo romano ha origini antiche e raffinate: era già diffuso nell’epoca imperiale, periodo in cui la Roma delle grandi feste celebrava la vita, la luce e il raccolto. In quei tempi, le massaie preparavano un impasto di frutta secca locale e miele, talvolta sostituendo le mandorle e le nocciole con noccioli di frutta estiva come prugne e albicocche essiccate, più facilmente reperibili e meno costosi. Questo approccio pragmatico trasformava il dolce in un alimento sia simbolico che concreto, in grado di nutrire e di legare la famiglia attorno al rito della festa.

Con l’espansione dei confini e l’incremento delle comunicazioni tra le regioni italiane, il Pangiallo si è arricchito di varianti e contaminazioni: in Umbria, ad esempio, ha dato origine al Pampepato, un dolce affine, più speziato e aromatizzato con pepe e cioccolato. Nonostante le differenze regionali, il nucleo fondamentale del Pangiallo – frutta secca, miele e farina – rimane invariato, testimonianza della forza di una tradizione millenaria.

Il Pangiallo si caratterizza per la ricchezza della sua composizione, che combina dolcezza naturale, texture croccante e aromi intensi:

  • Farina: base dell’impasto, fornisce struttura e sostegno alla frutta secca.

  • Miele: dolcificante naturale che lega gli ingredienti e conferisce aroma.

  • Frutta secca: noci, nocciole, mandorle e pinoli, che aggiungono croccantezza e profumo tostato.

  • Frutta essiccata: fichi, uva passa, cedro candito, per dolcezza, colore e contrasto aromatico.

  • Cioccolato fondente a pezzetti: ingrediente più moderno, che arricchisce la profondità gustativa del dolce.

  • Uova: utilizzate per spennellare la superficie, creando una crosta dorata durante la cottura.

La combinazione di questi elementi produce un dolce compatto, leggermente croccante all’esterno e morbido all’interno, con un colore giallo intenso che ne ha ispirato il nome e che richiama la luce e il sole, elemento centrale della sua simbologia.

La preparazione del Pangiallo richiede attenzione e pazienza, caratteristiche che ne fanno un dolce artigianale, capace di trasmettere cura e dedizione:

  1. Amalgamare gli ingredienti secchi: in una ciotola capiente si mescolano farina, frutta secca tritata grossolanamente e frutta essiccata tagliata a pezzetti.

  2. Aggiungere il miele: il miele viene scaldato leggermente per facilitare la miscelazione e versato sugli ingredienti secchi, lavorando l’impasto fino a ottenere una massa omogenea.

  3. Incorporare il cioccolato: i pezzetti di cioccolato fondente vengono distribuiti nell’impasto, completando il profilo aromatico del dolce.

  4. Formare il Pangiallo: l’impasto viene modellato in forme tondeggianti o leggermente schiacciate, a seconda della tradizione familiare.

  5. Spennellare con l’uovo: la superficie viene spennellata con la parte rossa dell’uovo per ottenere una doratura brillante.

  6. Cottura: il dolce viene cotto in forno a temperatura moderata fino a doratura completa, sviluppando aromi intensi e una consistenza compatta ma morbida al cuore.

Il Pangiallo si distingue per la sua ricchezza sensoriale: il contrasto tra croccantezza e morbidezza, dolcezza naturale e leggera nota amara della frutta secca crea un equilibrio armonioso. Ogni morso sprigiona il profumo tostato delle mandorle e delle nocciole, il calore aromatico del miele e la freschezza dei canditi. La compattezza lo rende perfetto da tagliare in fette e servire a colazione, merenda o come dolce conclusivo di pranzi e cene festive.

Il Pangiallo si presta a diversi abbinamenti, sia con bevande calde che con vini dolci:

  • Vino dolce: un Vin Santo o un Moscato d’Asti esaltano la dolcezza naturale del miele e della frutta.

  • Bevanda calda: caffè espresso, tè nero o cioccolata calda, che arricchiscono l’esperienza sensoriale con calore e rotondità.

  • Formaggi stagionati: per un contrasto sorprendente, il dolce si sposa con pecorini o formaggi a pasta dura leggermente salati.

Oggi, il Pangiallo è più di un dolce natalizio: è un simbolo di identità culturale e gastronomica del Lazio. Viene preparato nelle famiglie come gesto di tradizione, nei laboratori artigianali per le festività, e persino proposto in versioni moderne che aggiungono spezie come cannella, chiodi di garofano o zenzero, mantenendo però intatto lo spirito originale.

Come accade per molti dolci storici, la sua forza risiede nella capacità di legare presente e passato: ogni fetta racconta le origini romane, il sole invernale, i rituali domestici e l’arte della pasticceria casalinga.

Il Pangiallo è più di un semplice dolce: è memoria, tradizione e simbolo di luce in un periodo dell’anno buio. Dal profumo intenso di frutta secca e miele alla crosta dorata che richiama il sole, ogni preparazione rappresenta un piccolo rito che unisce famiglia, storia e territorio. Prepararlo significa rispettare una tradizione millenaria, gustarlo significa entrare in contatto con un pezzo di Roma antica che continua a brillare nelle cucine moderne.



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Pandoli di Schio – I biscotti veneti che raccontano un paese


Nel cuore del Veneto, tra le colline di Schio e Malo, nascono i Pandoli di Schio: biscotti semplici, fragranti e autentici, capaci di raccontare, con il loro profumo di forno e burro, un frammento della storia dolciaria italiana. Oggi riconosciuti come Prodotto Agroalimentare Tradizionale (P.A.T.), questi dolci rappresentano una delle espressioni più genuine della pasticceria veneta: povera negli ingredienti, ricca nella sostanza. La loro forma inconfondibile – tozza, allungata, simile a un grissino robusto – li rende immediatamente riconoscibili, ma è nel gusto che rivelano la loro anima più sincera: rustica, dolce al punto giusto, perfetta da intingere nel vino o nella cioccolata calda.

Schio, cittadina della provincia di Vicenza, è da secoli un centro vivace di arte, lavoro e cultura gastronomica. Nei suoi forni e nelle pasticcerie, i pandoli hanno preso forma come dolce della tradizione contadina, preparato nei giorni di festa con ingredienti semplici e reperibili in ogni casa: farina, burro, uova e zucchero.

La loro storia è legata alle famiglie che, dopo giornate di lavoro nei campi o nelle filande, trovavano conforto in questi biscotti fragranti. I pandoli non erano dolci di lusso, ma piuttosto un gesto di calore domestico, un modo per celebrare la fine della settimana o un giorno di festa. Cotti nei forni comuni del paese, rappresentavano un momento di incontro: mentre si attendeva la cottura, si chiacchierava, si scambiavano consigli e si condividevano segreti di impasto.

La loro consistenza, soda ma friabile, era pensata per resistere all’inzuppo, diventando perfetta compagna di vini dolci o cioccolata calda, bevande che nelle case venete segnavano i momenti conviviali.

Il termine pandòlo nella parlata locale ha un doppio significato: non solo indica il biscotto tradizionale, ma, in modo scherzoso, viene usato per definire una persona un po’ goffa o ingenua.
“Par come un pandòlo” si diceva per prendere bonariamente in giro chi appariva lento nei modi o poco sveglio. Forse il paragone nasce proprio dal comportamento dei biscotti quando vengono inzuppati: assorbono il liquido così velocemente da piegarsi su sé stessi prima di arrivare alla bocca, un gesto buffo che ha dato origine al modo di dire.

Questo tratto linguistico aggiunge un sapore di ironia alla tradizione, dimostrando come anche un dolce possa diventare parte del linguaggio e dell’identità popolare di un territorio.

La ricetta originale dei Pandoli di Schio è rimasta pressoché invariata nel tempo. Non richiede tecniche complesse né strumenti particolari, ma esige attenzione nei tempi di lavorazione e nella lievitazione.

Ingredienti (per circa 20 pandoli)

  • 500 g di farina 00

  • 150 g di burro morbido (oppure 100 g di strutto per la versione più antica)

  • 3 uova intere

  • 150 g di zucchero

  • 1 bustina di lievito per dolci (nelle versioni moderne; un tempo si usava un preimpasto naturale)

  • 1 pizzico di sale

  • Scorza grattugiata di limone o semi di vaniglia (facoltativi)

  • Latte q.b. per impastare

Preparazione passo per passo

  1. Montare le uova e lo zucchero
    In una ciotola capiente, rompere le uova e unirle allo zucchero. Montare con una frusta fino a ottenere un composto chiaro e spumoso.

  2. Incorporare il burro
    Aggiungere il burro morbido a pezzetti (o lo strutto se si desidera una consistenza più rustica) e amalgamare con cura.

  3. Unire farina e lievito
    Setacciare la farina con il lievito e aggiungerla gradualmente al composto, mescolando con un cucchiaio di legno. Aggiungere un pizzico di sale e, se desiderato, la scorza di limone o la vaniglia.

  4. Impastare e formare i pandoli
    Lavorare l’impasto fino a ottenere una massa compatta ma elastica. Se troppo dura, aggiungere un filo di latte. Tagliare piccoli pezzi di pasta e arrotolarli tra le mani formando bastoncini di circa 10-12 cm, spessi un paio di dita.

  5. Cottura
    Disporre i pandoli su una teglia rivestita di carta da forno, leggermente distanziati. Cuocere in forno statico a 180°C per circa 20-25 minuti, fino a doratura.

  6. Raffreddamento e conservazione
    Lasciare raffreddare completamente prima di conservarli in una scatola di latta: si manterranno fragranti per diversi giorni, perfetti per la colazione o come dolce da compagnia.

Il Pandolo di Schio non ha bisogno di decorazioni o farciture per conquistare. È un dolce sincero, che celebra la materia prima e la genuinità. Il suo profumo di burro e farina appena tostata evoca immediatamente l’immagine delle cucine venete, dove le nonne impastavano con le mani infarinate e i bambini rubavano i biscotti ancora tiepidi dal vassoio.

La semplicità della ricetta riflette la cultura contadina da cui proviene: pochi ingredienti, nessuno spreco, tutto affidato alla cura del gesto. Niente sfarzo, ma tanta sostanza.

Tradizionalmente, i Pandoli di Schio venivano serviti durante le feste patronali, nei matrimoni o nei mercati di paese. Ma il loro momento d’oro era, ed è ancora, la merenda.
Perfetti da gustare con un bicchiere di Recioto di Gambellara, un vino dolce veneto dalle note di miele e mandorla, oppure immersi in una tazza di cioccolata calda, i pandoli rappresentano il confine tra il dolce da forno e il biscotto da tuffare.

La loro friabilità li rende irresistibili anche accompagnati da un Torcolato di Breganze o da un Vin Santo toscano, che ne esaltano le note burrose e la dolcezza delicata.

Il Pandolo di Schio è più di un dolce: è la testimonianza di una cultura gastronomica che resiste al tempo. In un’epoca dominata da dessert elaborati e industriali, questi biscotti raccontano un’arte manuale fatta di lentezza, di profumi familiari e di gesti tramandati.

Nel 2000, grazie al riconoscimento come Prodotto Agroalimentare Tradizionale (P.A.T.), il Pandolo di Schio è entrato ufficialmente tra le eccellenze italiane. Ma per gli abitanti del Vicentino, questo titolo non aggiunge nulla alla sua importanza: il valore del pandolo è quello che si sente al primo morso, quando la crosta friabile cede e lascia spazio alla morbidezza del cuore, al profumo di forno e al ricordo di casa.

Abbinamenti consigliati

  • Vino dolce: Recioto di Gambellara o Torcolato di Breganze.

  • Bevanda calda: cioccolata densa o caffè corretto alla grappa.

  • Dessert regionale: servire accanto a una crema zabaione tiepida, per un contrasto di consistenze.

I Pandoli di Schio sono l’esempio perfetto di come la pasticceria tradizionale italiana riesca a coniugare semplicità e gusto, memoria e modernità. Nati dall’ingegno popolare e dal desiderio di dolcezza quotidiana, questi biscotti rappresentano la cultura della condivisione: il profumo del forno che unisce, la pausa serale che diventa rito, il sapore genuino che attraversa le generazioni.

In un mondo che cambia, il pandolo resta uguale: fiero della sua forma tozza, sincero come la terra da cui proviene.



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Pan di Spagna – La leggerezza che ha conquistato l’Europa

Nella storia della pasticceria, poche preparazioni hanno attraversato i secoli mantenendo intatto il loro fascino come il Pan di Spagna. Nato da un gesto di ingegno e diplomazia, questo dolce semplice e perfetto è diventato la base universale di torte e dessert in tutto il mondo. La sua consistenza aerea, la leggerezza assoluta e la capacità di assorbire aromi e bagne lo rendono una tela neutra sulla quale ogni pasticcere può costruire la propria creazione. Ma dietro la sua apparente semplicità si cela un equilibrio raffinato di tecnica, precisione e storia.

La leggenda più accreditata ci riporta al XVIII secolo, quando la Repubblica di Genova, potenza marittima e commerciale, intratteneva intensi rapporti con la Spagna. In questo contesto, il marchese Domenico Pallavicini, ambasciatore genovese presso la corte di Madrid, portò con sé un giovane pasticciere ligure: Giobatta Cabona.

Durante un ricevimento ufficiale, Pallavicini chiese al suo cuoco un dolce “nuovo”, leggero e degno di stupire la corte spagnola. Cabona, lavorando con pochi ingredienti — uova, zucchero e farina — creò una pasta sofficissima, mai vista prima. Quando il dolce fu servito, la corte ne rimase estasiata. Per omaggiare gli ospiti genovesi, venne battezzato Pan di Spagna, in onore del paese che ne fu teatro di nascita ufficiale.

Questa preparazione segnò una svolta: si abbandonavano i lieviti e i grassi per ottenere una sofficità naturale, frutto esclusivo dell’aria incorporata nelle uova. In un’epoca in cui la pasticceria era spesso densa e pesante, il Pan di Spagna rappresentò una rivoluzione di leggerezza e tecnica.

Nel corso del Settecento e dell’Ottocento, il Pan di Spagna si diffuse rapidamente in tutta Europa. La sua tecnica di montare le uova a caldo o a freddo ispirò la génoise francese, mentre in Inghilterra divenne la base della Victoria sponge, il dolce prediletto dalla regina Vittoria, farcito con confettura di lamponi e panna montata.

Con l’invenzione del lievito chimico nell’Ottocento, il Pan di Spagna si adattò alle nuove esigenze della pasticceria moderna, pur mantenendo intatta la sua essenza: un impasto spumoso, leggero e neutro, pronto a essere trasformato in mille varianti.

Da Genova a Parigi, da Londra a Vienna, questa base divenne sinonimo di eleganza e perfezione tecnica, pilastro di torte come la Zuppa Inglese, la Torta Diplomatica e la Cassata Siciliana.

Il segreto del Pan di Spagna risiede nella sua struttura interna: una rete stabile di bolle d’aria trattenute dalle proteine dell’uovo.
Non è la farina a reggere l’impasto, ma la montata d’uova: è qui che si gioca la perfezione.

Ingredienti per un Pan di Spagna classico (per una torta da 24 cm)

  • 6 uova fresche

  • 180 g di zucchero semolato

  • 150 g di farina 00

  • 30 g di fecola di patate

  • 1 pizzico di sale

  • Scorza grattugiata di limone o estratto di vaniglia (facoltativo)

Preparazione passo per passo

  1. Montare le uova con lo zucchero
    Rompere le uova in una ciotola capiente (preferibilmente metallica) e aggiungere lo zucchero. Posizionare la ciotola sopra un bagnomaria tiepido e montare con le fruste per circa 10 minuti, finché il composto non triplica di volume e diventa chiaro e spumoso.
    La temperatura non deve superare i 45°C: il calore aiuta le uova a inglobare più aria, rendendo l’impasto stabile e leggero.

  2. Aromatizzare
    Aggiungere scorza di limone o vaniglia secondo gusto. Gli aromi devono esaltare la naturale dolcezza del composto, mai coprirla.

  3. Incorporare le farine
    Setacciare insieme farina e fecola e aggiungerle al composto in tre volte, mescolando delicatamente dal basso verso l’alto con una spatola, senza smontare la massa. Questo passaggio richiede calma e precisione.

  4. Cottura
    Versare l’impasto in una tortiera imburrata e infarinata, cuocere in forno statico a 170°C per 35-40 minuti.
    Non aprire il forno nei primi 30 minuti: il Pan di Spagna, essendo privo di lievito, si regge solo sull’aria incorporata e rischierebbe di sgonfiarsi.

  5. Raffreddamento
    Una volta cotto, lasciarlo intiepidire con lo sportello del forno socchiuso. Poi capovolgerlo su una gratella per far evaporare l’umidità. Il risultato deve essere un impasto alto, elastico e profumato.

Varianti e segreti regionali

  • Pan di Spagna al cacao: sostituire 30 g di farina con altrettanto cacao amaro, per un gusto più intenso.

  • Pan di Spagna alle mandorle: aggiungere 40 g di farina di mandorle alla ricetta base, riducendo leggermente la farina.

  • Pan di Spagna al limone: incorporare scorza di limone e un cucchiaino di liquore limoncello alla montata.

  • Versione moderna: alcuni pasticceri aggiungono una piccola quantità di burro fuso (circa 40 g) per rendere la mollica più vellutata, ma la versione classica resta priva di grassi.

Nel Settecento, il Pan di Spagna rappresentava un lusso. Lo zucchero proveniva dalle colonie caraibiche e il grano tenero era costoso. Solo le famiglie nobili e le corti potevano permettersi dolci così raffinati.

Il dolce divenne presto simbolo di raffinatezza nelle grandi feste europee. Era servito con vini dolci o liquori aromatici, spesso accompagnato da frutta fresca o creme leggere. Durante l’età vittoriana, divenne il protagonista dei tea party e, nel Novecento, base imprescindibile di ogni torta da cerimonia.

Oggi il Pan di Spagna è la base di decine di dolci classici e contemporanei. Viene utilizzato per torte farcite, semifreddi, tiramisù e dolci al cucchiaio.
La sua neutralità lo rende un punto di partenza versatile: con bagne al caffè, liquori, sciroppi o succhi di frutta, assume sfumature sempre nuove.

In pasticceria professionale, la precisione nella cottura e nella montata è fondamentale. Le scuole italiane insegnano ancora la versione “a freddo”, in cui le uova vengono montate senza calore, ottenendo un impasto più arioso ma meno stabile rispetto a quello della génoise francese.

Il Pan di Spagna, servito al naturale, si abbina splendidamente a vini dolci e profumati.

  • Con il Vin Santo toscano, la sua leggerezza contrasta la dolcezza liquorosa del vino.

  • Con il Moscato d’Asti, crea un equilibrio tra acidità e morbidezza, perfetto per fine pasto.

  • Con il tè Darjeeling, sprigiona aromi sottili, ideali per una merenda raffinata.

Quando farcito con crema pasticcera o chantilly, accompagna bene anche un Passito di Pantelleria o un Recioto di Soave.

Il segreto del successo del Pan di Spagna è la sua purezza. Tre soli ingredienti — uova, zucchero, farina — bastano a creare una base capace di esprimere eleganza, equilibrio e armonia.
È il trionfo della tecnica sull’eccesso, della misura sulla ricchezza. Ogni sua fetta racchiude un frammento di storia europea, il dialogo tra Genova e Madrid, tra tradizione artigianale e gusto moderno.

Ogni volta che lo si prepara, si ripete un gesto antico di tre secoli: incorporare aria, dare forma alla leggerezza, trasformare la materia in luce.


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Pan della Marchesa – La dolce eleganza della Valle di Susa tra storia, nobiltà e nocciole piemontesi

Nelle vallate del Piemonte, dove le Alpi incontrano il profumo delle nocciole e il vento sa ancora di leggende medievali, nasce uno dei dolci più raffinati e meno conosciuti d’Italia: il Pan della Marchesa. È una torta morbida, vellutata, impreziosita da miele, burro, nocciole tostate e gocce di cioccolato. La sua fragranza avvolgente racconta di una nobiltà antica e di una terra generosa. Dietro il suo nome si cela una figura storica e quasi mitica: Adelaide di Susa, la “marchesa” cui il dolce è dedicato, una delle donne più potenti e illuminate dell’XI secolo.

Secondo la tradizione locale, il Pan della Marchesa fu creato in onore di Adelaide, marchesa di Torino e signora della Valle di Susa, una donna celebre per la sua saggezza e per il suo ruolo politico nella mediazione tra l’Impero e la Chiesa. Figura di potere e di grazia, Adelaide era amata dal popolo e rispettata dai sovrani. Si racconta che fosse solita accogliere i viandanti e i pellegrini che attraversavano la valle con un pane dolce preparato con miele e noci, simbolo di accoglienza e abbondanza.

La ricetta moderna compare per la prima volta in un ricettario manoscritto del 1958 appartenuto a un pasticcere di Susa, ma la tradizione orale lega il dolce a tempi ben più antichi. Nel 1987, in occasione del primo Torneo storico dei Borghi di Susa, il Pan della Marchesa fu scelto come dolce ufficiale dell’evento, assumendo la forma di torta rotonda. Da allora è diventato un simbolo gastronomico della valle e parte del “Paniere di Susa Galupa”, marchio che tutela e promuove i prodotti tipici locali.

Il Pan della Marchesa incarna l’essenza del Piemonte: elegante ma genuino, ricco ma equilibrato, dolce senza eccessi. L’impasto, soffice e profumato, nasce da una base di burro montato con zucchero e miele, a cui si uniscono farina di nocciole e gocce di cioccolato. Il risultato è una torta dal sapore pieno, rotondo, che celebra la nocciola tonda gentile delle Langhe e della Valle di Susa, tesoro della pasticceria piemontese.

Le scaglie di mandorle e nocciole che ne decorano la superficie aggiungono una nota croccante e un profumo tostato irresistibile. La cottura, seguita da un rapido raffreddamento e da una vaporizzazione con alcool etilico, fissa gli aromi e conferisce al dolce una consistenza perfetta: friabile ai bordi, umida al cuore.

Ingredienti per una torta da 8 porzioni

  • 200 g di farina 00

  • 120 g di farina di nocciole tostate

  • 150 g di burro morbido

  • 120 g di zucchero semolato

  • 2 cucchiai di miele di acacia o millefiori

  • 3 uova intere

  • 60 ml di latte intero

  • 40 g di gocce di cioccolato fondente

  • 1 cucchiaio di rhum (facoltativo)

  • ½ bustina di lievito per dolci (o 4 g di bicarbonato di ammonio)

  • 1 bustina di vanillina

  • 30 g di mandorle a lamelle

  • 30 g di nocciole tritate grossolanamente

  • Zucchero granellato per la superficie

Preparazione passo per passo

1. Montare la base cremosa
In una ciotola capiente o con la planetaria, lavora il burro morbido con lo zucchero fino a ottenere una crema chiara e soffice. Aggiungi il miele e continua a montare. Questa fase è essenziale per incorporare aria e garantire una torta leggera.

2. Aggiungere le uova e gli aromi
Unisci le uova una alla volta, mescolando con cura per non smontare il composto. Profuma con la vanillina e, se desideri, un cucchiaio di rhum, che ne intensificherà il bouquet aromatico.

3. Incorporare le farine
Setaccia la farina di frumento insieme al lievito e uniscila alla farina di nocciole. Aggiungi le polveri al composto alternandole con il latte, mescolando a mano con una spatola. L’impasto deve risultare denso ma cremoso.

4. Completare con i dettagli
Unisci le gocce di cioccolato e mescola brevemente per distribuirle in modo uniforme. Versa il tutto in una tortiera imburrata e infarinata di circa 22 cm di diametro. Livella la superficie e cospargi con mandorle a lamelle, nocciole tritate e un pizzico di zucchero granellato.

5. La cottura
Inforna a 180°C (forno statico) per circa 20-25 minuti, finché la superficie sarà dorata e il profumo avrà invaso la cucina. Verifica la cottura con uno stecchino: deve uscire asciutto ma non secco.

6. Il raffreddamento e la finitura
Una volta sfornata, la torta viene portata rapidamente a +3°C (in frigorifero o in cella) per fissarne la struttura. Infine, viene vaporizzata con una leggera soluzione di alcool alimentare per preservarne la fragranza e prolungarne la conservazione, secondo la tradizione dei pasticceri di Susa.

Il Pan della Marchesa è un dolce aristocratico nella struttura e contadino nell’anima. Il burro e il miele gli conferiscono morbidezza e calore, la farina di nocciole lo rende vellutato e profumato, mentre le gocce di cioccolato ne arricchiscono la dolcezza con un tocco rotondo e avvolgente. La copertura di frutta secca, dorata in forno, aggiunge una piacevole croccantezza e un contrasto aromatico che invita al secondo morso.

È una torta che si gusta lentamente, ideale nelle giornate fredde, accompagnata da un bicchiere di vino dolce o da una tazza di tè nero. La sua struttura semplice e compatta la rende perfetta anche per la colazione o la merenda, soprattutto nei mesi autunnali, quando i profumi di miele e nocciole sembrano risuonare con l’aria fresca della valle.

Tradizionalmente, il Pan della Marchesa viene servito con un calice di Passito di Caluso o di Moscato d’Asti, vini che valorizzano la sua dolcezza naturale senza sovrastarla. Anche un bicchiere di Barolo Chinato, con le sue note speziate e amarognole, crea un contrasto raffinato e avvolgente.

Chi preferisce un abbinamento non alcolico può optare per una tazza di tè Darjeeling o per un caffè moka, che ne esaltano il bouquet di nocciole tostate e vaniglia.

Il Pan della Marchesa non è solo un dolce, ma un omaggio a una figura femminile straordinaria e a una terra di confine tra storia e natura. Ogni fetta racchiude la grazia di Adelaide di Susa, la forza delle donne piemontesi e il rispetto per la tradizione artigianale. È un dolce che parla di radici, di ospitalità e di dignità: un gesto semplice e nobile insieme, come un saluto antico tra chi accoglie e chi viaggia.

Portarlo in tavola significa portare un frammento di quella storia, un invito a ricordare che la dolcezza non è mai solo una questione di gusto, ma anche di memoria. In esso vivono il rigore delle Alpi, la ricchezza delle nocciole, il profumo del miele e l’eleganza discreta di una marchesa che ancora oggi, seppur nel mito, sembra vegliare sui forni della Valle di Susa.



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Pan dei Morti – Il dolce lombardo che unisce vivi e defunti nel ricordo del tempo

 

Ogni anno, all’inizio di novembre, i forni della Lombardia si riempiono di un profumo speziato e inconfondibile: cacao, cannella, vino e frutta secca. È il profumo del Pan dei Morti, un dolce denso e scuro, antico come la memoria che celebra. Nato tra Milano, la Brianza e la provincia di Bergamo, questo pane dolce viene preparato in occasione della Festa dei Morti, quando, secondo la tradizione popolare, le anime dei defunti tornano a visitare le proprie case. Prepararlo significa accoglierle con rispetto e dolcezza, offrendo loro un dono di farina, vino e spezie, simboli di vita e rinascita.

Il Pan dei Morti è il frutto di una lunga stratificazione culturale. Le sue origini si intrecciano con le antiche feste pagane dedicate al culto degli antenati, successivamente cristianizzate nella commemorazione dei defunti. Nella Lombardia del XIX secolo, durante la notte tra l’1 e il 2 novembre, le famiglie lasciavano sulla tavola una tovaglia bianca, un lume acceso e un piatto di Pan dei Morti per le anime dei cari scomparsi. Al mattino, il dolce veniva condiviso tra i vivi, quasi a suggellare un legame simbolico tra i due mondi.

Non era un pane qualunque: la sua forma ovale e appiattita ricordava volutamente la sagoma del corpo umano, e il suo colore scuro, dato dal cacao e dal vino, evocava la terra. Ma nella dolcezza e negli aromi caldi c’era anche la promessa della vita che continua, della memoria che si fa nutrimento.

Nel corso del Novecento, il Pan dei Morti è diventato un dolce diffuso in tutta la Lombardia, assumendo varianti locali e familiari. Alcuni lo preparano più morbido e ricco, altri più secco, quasi un biscotto da inzuppare nel vino dolce. Ma ovunque, resta un simbolo di affetto e continuità.

Ciò che rende unico il Pan dei Morti è la sua composizione: un insieme di elementi che raccontano la parsimonia e l’ingegno delle cucine contadine. La base è formata da biscotti secchi sbriciolati, spesso ricavati dagli avanzi di altre preparazioni – savoiardi, amaretti o frollini – che venivano “rinati” nel vino e trasformati in un impasto nuovo.

Accanto ai biscotti troviamo fichi secchi, uvetta e mandorle o pinoli, tutti simboli di abbondanza e prosperità. Il vino liquoroso, solitamente vinsanto o marsala, lega gli ingredienti e dona profondità al sapore, mentre le spezie – cannella, noce moscata, zenzero e talvolta chiodi di garofano – evocano l’atmosfera autunnale e il calore delle cucine di un tempo.

Infine, la presenza degli albumi montati lega il composto e conferisce al dolce la sua consistenza compatta ma morbida, che resiste per giorni, migliorando col tempo.

Ingredienti per 12 dolci ovali

  • 200 g di biscotti secchi (savoiardi o frollini)

  • 100 g di amaretti

  • 100 g di fichi secchi

  • 50 g di uvetta

  • 60 g di mandorle (oppure pinoli o nocciole)

  • 30 g di cacao amaro in polvere

  • 100 g di zucchero semolato

  • 80 g di farina 00

  • 2 albumi d’uovo

  • 80 ml di vinsanto o altro vino liquoroso (marsala o vin brulé)

  • 1 cucchiaino di cannella in polvere

  • Una grattugiata di noce moscata

  • Un pizzico di zenzero in polvere

  • Zucchero a velo per la decorazione

  • (Facoltativo: una base di ostie per appoggiarli durante la cottura)

Preparazione passo per passo

1. La base aromatica
Trita grossolanamente i biscotti e gli amaretti, poi riducili quasi in farina con un mixer. Trasferisci il composto in una ciotola capiente e unisci la farina, il cacao, lo zucchero e le spezie. Mescola bene, profumando la miscela con la cannella e un pizzico di noce moscata.

2. L’anima del dolce
Taglia i fichi secchi a pezzetti e uniscili al composto insieme all’uvetta ammollata nel vinsanto e ben strizzata. Aggiungi anche le mandorle tritate grossolanamente. Versa il vino rimasto e mescola con cura fino a ottenere un impasto umido e consistente.

3. L’impasto
Monta leggermente gli albumi con una frusta – non devono essere a neve ferma, ma spumosi – e incorporali al composto con movimenti delicati. L’impasto deve risultare compatto ma modellabile. Se risulta troppo asciutto, aggiungi un cucchiaio di vino; se troppo morbido, una spolverata di farina.

4. La formatura
Con le mani inumidite, preleva delle porzioni d’impasto e modellale a forma di piccoli pani ovali, lunghi circa 10-12 cm. Disponili su una teglia rivestita con carta da forno o su ostie, distanziandoli leggermente.

5. La cottura
Inforna in forno statico preriscaldato a 180°C per circa 20-25 minuti. I dolci devono asciugarsi ma restare morbidi dentro. Una volta raffreddati, spolverali generosamente con zucchero a velo.

Il Pan dei Morti si conserva a lungo, fino a dieci giorni in una scatola di latta o avvolto in carta pergamena. Con il passare dei giorni, i sapori si fondono, le spezie maturano e la consistenza diventa più armoniosa. Per questo motivo, molti lo preparano con qualche giorno d’anticipo, in modo che il dolce raggiunga il suo equilibrio ideale proprio tra il 1° e il 2 novembre.

Ogni area lombarda ha la sua versione. Nella Brianza si aggiunge talvolta cioccolato fondente tritato, mentre nella zona di Cremona si preferisce una pasta più morbida, quasi simile a quella di una torta. A Bergamo, alcuni usano fichi freschi secchi al sole e un tocco di vino rosso corposo, in ricordo del raccolto appena concluso.

Esiste anche una variante che sostituisce lo zucchero a velo con sottili ostie, un tempo facilmente reperibili presso i monasteri e le chiese, che davano al dolce un aspetto più austero e simbolico.

Dietro la semplicità della ricetta, il Pan dei Morti custodisce un profondo significato rituale. I suoi ingredienti non sono casuali: la frutta secca rappresenta l’eternità, il vino il legame con la terra, le spezie la purificazione, e la forma ovale l’idea della rinascita. Mangiare questo pane significa, in un certo senso, nutrirsi della memoria di chi non c’è più, mantenendolo vivo nella quotidianità dei gesti.

Non è un dolce da festa chiassosa, ma da tavola raccolta, da silenzio rispettoso e da racconto condiviso. Ogni famiglia ne ha una storia: c’è chi lo preparava la sera di Tutti i Santi e lo lasciava sul davanzale “perché i morti non bussino”, chi lo offriva ai bambini per ricordare i nonni, chi lo portava al cimitero in un panno, come segno d’amore.

Il Pan dei Morti si sposa splendidamente con un bicchiere di Vin Santo del Chianti, un Marsala Superiore o, per chi preferisce i rossi, con un Recioto della Valpolicella o un Sforzato di Valtellina. La dolcezza del vino amplifica le note di cacao e frutta secca, mentre l’alcol ne esalta il profumo speziato.

In chiave moderna, alcuni sommelier suggeriscono l’abbinamento con un caffè espresso o con un liquore alle erbe amare, per creare un contrasto di sapori che richiama l’equilibrio tra vita e morte, luce e ombra, dolcezza e intensità.

Il Pan dei Morti è più di un dolce: è un rito domestico che racconta la continuità della vita. Ogni volta che viene sfornato, riporta nelle cucine lombarde l’eco dei passi di chi non c’è più, mescolando il ricordo con la fragranza della farina.

Oggi, in un tempo che tende a dimenticare, preparare questo dolce è un atto di resistenza culturale. È un modo per tramandare valori, sapori e gesti che definiscono l’identità di una regione. La sua presenza sulle tavole di novembre non è solo una consuetudine, ma una forma di dialogo silenzioso con le generazioni passate.

Un morso di Pan dei Morti è un ritorno alle origini: il sapore della terra, il calore del vino, la carezza delle spezie. È la memoria che diventa gusto, il passato che si fa presente, e il presente che, per un istante, accoglie i suoi fantasmi con dolcezza.



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