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Caffè Romano

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«... Ecco il tavolino preparato per lei! Cassata, fragola, schiumone: abbiamo gelati d’ogni genere stasera, signor marchese!»
(Le sere d’estate in piazza e al bar, era una festa» di Pier Maria Rosso di San Secondo)






Il caffè Romano o bar Romano o Gran Caffè Romano è stato uno storico caffè della città di Caltanissetta, di proprietà del cavaliere Raimondo Romano detto Ramunnu in siciliano.


Storia

Esso è stato un luogo simbolo della città nissena, insieme alla libreria Sciascia. Posto di fronte il Palazzo del Carmine storica sede del Comune nisseno; nei suoi tavolini si sono seduti Leonardo Sciascia, Vitaliano Brancati, Pier Maria Rosso di San Secondo, Pompeo Colajanni, Giuseppe Granata, Giuseppe Alessi, il preside Luigi Monaco e tanti altri insieme all'intelligentia nissena tutta.
Ha operato ininterrottamente dal 1923 fino alla sua chiusura avvenuta nell'aprile del 2014. Nel settembre del 2000, dopo qualche tempo la morte di Romano, aveva cambiato gestione.
Conosciuto per i suoi dolci tipici della tradizione nissena come il rollò, il cannolo e tanti altri oppure per i raffiolini o per la qualità dei gelati duri e dei torroni.



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Caffè Tettamanzi

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Il Caffè Tettamanzi (o Bar Majore), è un locale storico di Nuoro fondato nel 1875 e situato al corso Giuseppe Garibaldi 71.

Storia

Questo caffè chiamato anticamente Bar Majore, veniva frequentato quotidianamente da Sebastiano Satta e dagli altri intellettuali dell'Atene Sarda. All'interno il soffitto è impreziosito dagli stucchi originali opera di Tettamanzi, fondatore del locale; ebanista piemontese, venne a Nuoro per lavorare al coro ligneo dell'erigenda cattedrale. Le pareti del locale conservano ancora alcuni specchi d'epoca.
L'interno di questo caffè storico ricorda quello descritto da Salvatore Satta nel suo romanzo Il giorno del giudizio: «Il Corso si stendeva dalla piazza di San Giovanni, al Ponte di Ferro si affacciavano le case di pretesa, quella di Tettamanzi, altro continentale, ma di cui non si serbava ricordo che nel nome del caffè, al piano terreno. Era un caffè grazioso, con piccole salette orlate di divani rossi, come, salvando il rispetto, i caffè di Venezia».
Il Caffè Tettamanzi si trova al piano terra, di un grande edificio che si affaccia sul Corso Garibaldi, nel centro di Nuoro e costituiva il luogo di ritrovo dei nuoresi del primo novecento. Ancora oggi è punto di ritrovo di nuoresi e turisti.
Al giorno d'oggi nel bar vengono allestite anche delle mostre fotografiche e/o artistiche.

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Kalač

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Il kalač in russo: калач è un tipo di pane bianco russo fatto con farina di frumento e modellato a forma di maniglia.


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Caffè Pedrocchi

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Il Caffè Pedrocchi è un caffè storico di fama internazionale, situato nel pieno centro di Padova, in via VIII Febbraio nº 15. Aperto giorno e notte dal 1916 e perciò noto anche come il "Caffè senza porte", per oltre un secolo è stato un prestigioso punto d'incontro frequentato da intellettuali, studenti, accademici e uomini politici. L'8 febbraio 1848, il ferimento al suo interno di uno studente universitario diede il via ad alcuni dei moti caratterizzanti il Risorgimento italiano e che sono ancora oggi ricordati nell'inno ufficiale universitario, Di canti di gioia.


Storia




(FR)
« C'est à Padoue que j'ai commencé à voir la vie à la vénitienne, les femmes dans les cafés. L'excellent restaurateur Pedrocchi, le meilleur d'Italie. »
(IT)
« È a Padova che ho cominciato a vedere la vita alla maniera veneziana, con le donne sedute nei caffè. L'eccellente ristoratore Pedrocchi, il migliore d'Italia. »
(Stendhal)



Tra Settecento e Ottocento il consumo del caffè si è diffuso anche in Italia e si è andata così affermando la tradizione del caffè come circolo borghese e come punto d'incontro aperto, in contrapposizione alla dimensione privata dei salotti nobili. A Padova la presenza aggiuntiva di oltre tremila persone tra studenti, commercianti e militari fece sì che, più che in altri centri cittadini, si sviluppasse questo tipo di attività.
In questo contesto, nel 1772 il bergamasco Francesco Pedrocchi apre una fortunata "bottega del caffè" in un punto strategico di Padova, a poca distanza dall'Università, dal Municipio, dai mercati, dal teatro e dalla piazza dei Noli (oggi Piazza Garibaldi), da cui partivano diligenze per le città vicine, e dall'Ufficio delle Poste (oggi sede di una banca).
Il figlio Antonio, ereditata la fiorente attività paterna nel 1800, dimostra subito capacità imprenditoriali decidendo di investire i guadagni nell'acquisto dei locali contigui al suo e, nel giro di circa 20 anni, si ritrova proprietario dell'intero isolato, un'area pressappoco triangolare delimitata a est dalla via della Garzeria (oggi via VIII Febbraio), a ovest da via della Pescheria Vecchia (oggi vicolo Pedrocchi) e a nord dall'Oratorio di San Giobbe (oggi piazzetta Pedrocchi).
Il 16 agosto 1826 Antonio Pedrocchi presenta alle autorità comunali il progetto per la costruzione di uno stabilimento, comprendente locali destinati alla torrefazione, alla preparazione del caffè, alla "conserva del ghiaccio" e alla mescita delle bevande. Prima di questo cantiere, Pedrocchi aveva incaricato un altro tecnico, Giuseppe Bisacco, di eseguire i lavori di demolizione dell'intero isolato e di costruire un edificio ma, insoddisfatto del risultato, aveva richiesto a Giuseppe Jappelli, ingegnere e architetto già di fama europea e esponente di spicco della borghesia cittadina che frequentava il caffè, di riprogettare il complesso dandogli un'impronta elegante e unica.
Nonostante le difficoltà determinate dal dover disegnare su una pianta irregolare e dal dover coordinare facciate spazialmente diverse, Jappelli fu in grado di progettare un edificio eclettico che trova la sua unità nell'impianto di stile neoclassico. L'illustre veneziano volle trasferire in architettura la sua visione laica e illuminista della società, creando quello che poi diverrà uno degli edifici-simbolo della città di Padova.
Il piano terreno fu ultimato nel 1831, mentre nel 1839 venne realizzato il corpo aggiunto in stile neogotico denominato "Pedrocchino", destinato ad accogliere l'offelleria (pasticceria). In occasione del "IV Congresso degli scienziati italiani" (evento dal titolo significativo, visto che Padova si trovava ancora sotto la dominazione asburgica), nel 1842 si inaugurarono le sale del piano superiore che, secondo il gusto storicizzante dell'epoca, erano state decorate in stili diversi, creando un singolare percorso attraverso le civiltà dell'uomo.
Per la loro realizzazione Jappelli si avvalse della collaborazione dell'ingegnere veronese Bartolomeo Franceschini e di numerosi decoratori, tra cui il romano Giuseppe Petrelli, al quale si deve la fusione delle balaustre delle terrazze con i grifi, i bellunesi Giovanni De Min, ideatore della sala greca, Ippolito Caffi della sala romana e Pietro Paoletti della sala pompeiana (o "ercolana"), il padovano Vincenzo Gazzotto, pittore del dipinto sul soffitto della sala rinascimentale.
Le sale del piano superiore erano destinate a incontri, convegni, feste e spettacoli e il loro utilizzo veniva concesso ad associazioni pubbliche e private che, a vario titolo, potevano organizzare eventi.
Antonio Pedrocchi si spense il 22 gennaio 1852. Animato dalla volontà di lasciare la gestione del suo caffè a una persona di fiducia, aveva adottato Domenico Cappellato, il figlio di un suo garzone, che alla morte del padre putativo si impegnò nel dare continuità all'impresa ricevuta in eredità, pur cedendo in gestione le varie sezioni dello stabilimento.
Alla morte di Cappellato, avvenuta nel 1891, il caffè passa al Comune di Padova. In un testamento stilato alcuni mesi prima, Cappellato lasciava infatti lo stabilimento ai suoi concittadini:
« Faccio obbligo solenne e imperituro al Comune di Padova di conservare in perpetuo, oltre la proprietà, l'uso dello Stabilimento come trovasi attualmente, cercando di promuovere e sviluppare tutti quei miglioramenti che verranno portati dal progresso dei tempi mettendolo al livello di questi e nulla tralasciando onde nel suo genere possa mantenere il primato in Italia »
(Dal testamento di Domenico Cappellato Pedrocchi



La decadenza

Un inevitabile degrado dovuto alle difficoltà determinate dalla grande guerra caratterizzerà il caffè negli anni tra il 1915 e il 1924. In quest'ultima data hanno inizio i lavori di restauro del "Pedrocchino", che si protrarranno fino al 1927. Negli anni successivi va purtroppo dispersa gran parte degli arredi originari disegnati dallo stesso Jappelli, che verranno sostituiti via via nell'epoca fascista.
Dopo la seconda guerra mondiale, con il progetto dell'architetto Angelo Pisani che si impone contro quello di Carlo Scarpa, mai preso in considerazione dall'amministrazione comunale, si avvia un nuovo restauro che ridefinisce i vani affacciati sul vicolo posteriore, trasforma lo stesso vicolo in una galleria coperta da vetrocemento e ricava alcuni negozi, un posto telefonico pubblico e una fontana in bronzo sventrando parte dell'Offelleria, del Ristoratore e demolendo la Sala del Biliardo.
Nonostante le proteste di molti cittadini e le perplessità della Soprintendenza ai monumenti, viene sostituito lo storico bancone in marmo con banchi di foggia moderna, viene installata una fontana luminosa al neon e le carte geografiche della sala centrale, caratterizzate dalla rappresentazione rovesciata delle terre emerse (curiosamente il sud viene rappresentato in alto) vengono sostituite da specchi.
Per buona parte degli anni ottanta e novanta il Pedrocchi rimane chiuso per difficoltà tra i titolari della gestione e il Comune; nel 1994 viene finalmente deciso il recupero dei locali e all'architetto Umberto Riva e ai collaboratori M. Macchietto, P. Bovini e M. Manfredi viene affidato il compito di rimediare ai danni provocati dal devastante restauro Pisani degli anni cinquanta e di riportare all'antico splendore i locali dello storico caffè.
Dopo l'esecuzione del primo stralcio di lavori, il 22 dicembre 1998 il caffè viene restituito ai cittadini di Padova.


Architettura

Il Caffè Pedrocchi si configura come un edificio di pianta approssimativamente triangolare, paragonata a un clavicembalo. La facciata principale si presenta con un alto basamento in bugnato liscio, guarda verso est e si sviluppa lungo la via VIII Febbraio; su di essa si affacciano le tre sale principali del piano terra: la Sala Bianca, la Sala Rossa e la Sala Verde, così chiamate dal colore delle tappezzerie realizzate dopo l'Unità d'Italia nel 1861.
La Sala Rossa è quella centrale, divisa in tre spazi, è la più grande e vede attualmente ripristinato il bancone scanalato di marmo così come progettato da Jappelli. La Sala Verde, caratterizzata da un grande specchio posto sopra al camino, era per tradizione destinata a chi voleva accomodarsi e leggere i quotidiani senza obbligo di consumare. È stata pertanto ritrovo preferito degli studenti squattrinati e a Padova si fa risalire a questa consuetudine il modo di dire essere al verde. La Sala Bianca, si affaccia verso il Bo, conserva in una parete il foro di un proiettile sparato nel 1848 dai soldati austro-ungarici contro gli studenti in rivolta contro la dominazione asburgica. Inoltre, è anche nota come ambientazione scelta da Stendhal per il suo romanzo "La certosa di Parma". Completa il piano terra la Sala Ottagona o della Borsa, dall'arredo non troppo raffinato, destinata in origine alle contrattazioni commerciali.
A sud il caffè termina con una loggia sostenuta da colonne doriche e affiancata dal corpo neogotico del cosiddetto "Pedrocchino". Quest'ultimo, è costituito da una torretta a base ottagonale che rappresenta una fonte di luce, grazie alle finestre disposte su ogni lato. Inoltre, al suo interno è presente una scala a chiocciola. Due logge nello stesso stile si trovano dislocate sul lato nord, e davanti a queste si trovano quattro leoni in pietra scolpiti dal Petrelli, che imitano quelli in basalto che ornano la cordonata del Campidoglio a Roma.
Tra le due logge del lato nord si trova una terrazza delimitata da colonne corinzie.
Il piano superiore o "piano nobile" è articolato in dieci sale, ciascuna decorata con uno stile diverso:
  1. Etrusca
  2. Greca
  3. Romana: caratterizzata da una pianta circolare;
  4. Stanzino barocco
  5. Rinascimentale
  6. Gotica-medievale
  7. Ercolana o pompeiana: tipici sono i decori che ricordano le ville romane;
  8. Rossini: è la stanza più grande, infatti riproduce la stessa planimetria della sala Rossa del piano terra. In questa stanza, dedicata a Rossini e Napoleone, possiamo osservare degli stucchi a tema musicale che ne rappresentano simbolicamente la destinazione d'uso.
  9. Moresca: molto piccola;
  10. Egizia: ai quattro angoli della stanza troviamo dei piedistalli che sorreggono una finta trabeazione, e diversi attributi che ci rimandano alla cultura egiziana.
La chiave di lettura di questo apparato decorativo può essere quella romantica di rivisitazione nostalgica degli stili del passato. Non è esclusa però una chiave esoterica o massonica (Jappelli era massone). I simboli egizi precedono la decifrazione della scrittura geroglifica da parte di Champollion e sono piuttosto un omaggio al grande esploratore padovano Giovanni Battista Belzoni, che aveva scoperto numerosi monumenti egizi e di cui Jappelli aveva conoscenza diretta.
Presso il piano nobile dello Stabilimento si trova il Museo del Risorgimento e dell'età contemporanea, dove sono conservati tra gli altri i ritratti del fondatore Antonio Pedrocchi e del suo successore Domenico Cappellato Pedrocchi, entrambi opera di Achille Astolfi.



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Ghibanizza

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«Se avessi avuto uova e burro, mia madre avrebbe saputo come preparare la ghibanizza.»
(Antico proverbio serbo)



La ghibanizza o gibanica (in serbo cirillico Гибаница, pronuncia: [ˈɡibanit͡sa]) è un dolce di pasticceria tipico dei Balcani ed in particolare della Serbia. Viene preparato generalmente con formaggio fresco e uova e le ricette possono variare dal dolce al salato e da semplici fino ad elaborate torte multi-strato tradizionali per le festività.
Il termine deriva dal verbo "gibati" (ги́бати) della lingua serba, che significa "piegare, muoversi". Il dolce viene citato nel dizionario serbo del 1818 del linguista serbo Vuk Stefanović Karadžić.
Il dolce viene servito per colazione insieme al kefir o yogurt bianco. Oltre che nei Balcani, la ghibanizza può essere gustata nei ristoranti di cucina serba nel mondo.
La ghibanizza è uno dei dolci più popolari e tipici dei Balcani, e viene servito sia nelle occasioni festive, sia in famiglia. In Serbia, la torta viene consumata come piatto tradizionale di Natale, Pasqua e Slava (patrono di famiglia).


Etimologia

Nel vocabolario dell'Accademia Jugoslava, così come nel dizionario etimologico delle lingue slave, la parola gibanica viene fatta derivare dal verbo della lingua serba gíbati/ги́бати, che significa "piegare, muoversi". Esistono inoltre altre parole derivate in serbo-croato, come gibaničar/гибаничар (colui che prepara/ama mangiare la ghibanizza e, in senso dispregiativo, scroccone).


Storia

La parola gibanica fu utilizzata nei Balcani nel XVII secolo come cognome o nomignolo. La parola serba gìbanica/гѝбаница venne inclusa nel dizionario serbo, scritto nel 1818 dal filologo e linguista serbo Vuk Stefanović Karadžić, il quale viaggiò a lungo nei Balcani e annotò fatti interessanti su tradizioni e costumi serbi. Riguardo alla gibanica, spiegò che "è una torta con formaggio molle tra pasta sfoglia mischiata con kaymak, latte e uova".
Durante la seconda guerra mondiale, mentre si nascondevano dalle forze della Germania nazista nelle foreste della Jugoslavia, i Cetnici serbi crearono la cosiddetta Gibanica cetnica, con gli ingredienti ricevuti dai contadini: quando il comandante dei partigiani jugoslavi, Josip Broz Tito, e il leader dei cetnici Draža Mihailović si incontrarono a Ravna Gora nel 1941, venne servita una gibanica e patate cotte nel sač insieme a kaymak preparate appositamente per loro.
Nel 2007, la Gibanica è divenuta un marchio ufficiale di un prodotto esportato della Serbia: alla fiera di Belgrado l'industria alimentare "Alexandria" presentò una gibanica semi-cotta e congelata per il mercato internazionale.


Preparazione

La ricetta originale della gibanica include la tradizionale pasta fillo casalinga e formaggio molle fresco di mucca. Il formaggio può essere feta o sirene. La torta viene preparata tradizionalmente come una "gužvara" (torta ripiena), in modo che la pasta fillo nel mezzo viene riempita e mescolata. Oltre al formaggio molle, l'impasto contiene uova, latte, kaymak, strutto, sale e acqua. Inoltre, il ripieno può contenere spinaci, carne, ortiche, patate e cipolla. Per velocizzare la preparazione, può essere utilizzata la pasta fillo già prodotta, unitamente a olio di semi di girasole o olio di oliva al posto dello strutto.
La ghibanizza è un dolce a forma rotonda con crosta croccante bruno-dorata. L'interno è a più strati, e comprende una pasta sfoglia con piccoli pezzi di formaggio tra ogni strato. La ghibanizza può essere servita calda al mattino ed è generalmente accompagnata da yogurt.



Varianti

Molte varianti di ghibanizza e relative ricette sono diffuse nei Balcani; differenti ghibanizze sono parte della cucina nazionale di Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Macedonia, Serbia, Slovenia, Italia, Grecia e Bulgaria (dove viene chiamata Banitsa).
Dalla ricetta di base, sono derivate molte specialità locali. La Prekmurska gibanica, ad esempio, è una torta molti-strato della provincia dell'Oltremura in Slovenia, ed è servita come dessert nelle festività. La Međimurska gibanica, della vicina regione del Međimurje in Croazia, è molto simile, ma più semplice e meno "formale", poiché composta da soli quattro strati ripieni di formaggio quark, semi di papavero, mele e noci). La Prleška gibanica è la variante preparata nella regione della Prlekija sulla sponda occidentale del fiume Mura.
Oltre ai Balcani, il concetto base della ghibanizza (relativo ad una torta contenente formaggio e altri ripieni) è presente anche in Anatolia e nei paesi del mediterraneo orientale. Ad esempio la Shabiyat (Sh'abiyat, Shaabiyat) è una ricetta della cucina di Siria e Libano. La ghibanizza assomiglia inoltre ad una specie di strudel di formaggio, con il quale condivide probabilmente un antenato comune nelle ricette della regione e nelle antiche cucine degli imperi bizantino ed ottomano.


Nella cultura popolare

La ghibanizza è uno dei dolci più popolari e riconoscibili della cucina balcanica, servita sia nelle occasioni festive che come spuntino casalingo.
La più grande ghibanizza mai realizzata fu preparata a Mionica nel 2007: pesava oltre 1.000 kg e per la sua realizzazione sono stati necessari 330 kg di pasta fillo, 330 kg di formaggio, 3.300 uova, 30 litri di olio, 110 litri di acqua minerale, 50 kg di strutto e 500 confezioni di lievito in polvere.
In Serbia, così come nei paesi vicini, esistono sagre dedicate alla pietanza. Uno di essi è il Festival della ghibanizza (chiamato anche "Giorni della Banitsa") organizzato annualmente a Bela Palanka dal 2005.

Informazioni nutrizionali

100 grammi di gibanica contengono mediamente: 1.255 kJ (300 kcal), 15,4 g di carboidrati, 22,2 g di grassi e 9,9 g di proteine.




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Caffè Baratti & Milano

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Il Caffè Baratti & Milano è uno dei locali storici più antichi e prestigiosi di Torino, situato nella centralissima piazza Castello e adiacente alla Galleria Subalpina fin dal 1875.


Cenni storici

Il celebre Caffè Baratti & Milano deve il suo nome a due confettieri canavesani: Ferdinando Baratti e Edoardo Milano. Trasferitisi a Torino nel 1858, essi aprirono un laboratorio di confetteria e pasticceria in via Dora Grossa 43 (l'attuale via Garibaldi), destinato a divenire uno dei marchi più rinomati dell'industria dolciaria piemontese e italiana. Tra l'altro fu Ferdinando Baratti che creò il famoso cremino divenuto poi con il gianduiotto uno dei grandi classici fra i cioccolatini italiani.
Dato il crescente successo, nel 1875 la Baratti & Milano decise di trasferirsi in centro, presso i locali nella nuovissima Galleria Subalpina, appena inaugurata. Il locale divenne presto ambìto luogo di ritrovo della borghesia e di intellettuali come D'Azeglio, Giolitti ed Einaudi tanto che il successo crebbe a tal punto da ricevere la qualifica di "Azienda fornitrice ufficiale della Real Casa".
Il locale come appare attualmente è frutto del primo rifacimento a seguito dell'ampliamento del 1909, realizzato su progetto di Giulio Casanova e, per quanto riguarda gli interni, dello scultore Edoardo Rubino. Il risultato è un elegantissimo ambiente caratterizzato da un ampio uso di specchi, marmi, bronzi, dorature e stucchi che conferiscono al locale un ricco profilo architettonico e artistico, che valsero al Caffè Baratti & Milano varie citazioni in ambito letterario e ricercata ambientazione di scene cinematografiche.
Nel 1948 il locale riapre i battenti, dopo un attento restauro a seguito dei danni dei bombardamenti della guerra e nel 1985 il Ministero dei beni culturali e ambientali pone il vincolo di tutela sul locale e sugli arredi.
Dopo alcuni riassetti societari della Baratti & Milano occorsi con il tempo, il marchio delle celebri caramelle Barattine e il locale passano di proprietà prima al gruppo dolciario veneto Toulà e, nel 2003, al gruppo Novi-Elah-Dufour, che ha finanziato anche l'ultimo restauro conservativo conclusosi nel 2004.



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Yakgwa

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Lo yakgwa (약과, 藥菓) è un piatto tradizionale coreano. In precedenza era considerato un dessert e, più di recente, un prodotto di pasticceria perché ha sapore dolce e forma di biscotto. Esso è composto da miele, olio di sesamo e farina.


Origini

L'origine dello yakgwa non è chiara visto che esso ha avuto numerosi nomi differenti. Comunque sembra che i coreani iniziarono a mangiarlo durante l'era Shilla. Nella dinastia Goryeo lo yakgwa era noto anche in Cina col nome Goryeo Mandu. È dalla dinastia Joseon che ha preso il nome yakgwa. Il nome letteralmente significa il dolce medicinale; ciò per via degli ingredienti con cui è fatto; infatti durante l'era della dinastia Joseon il miele era considerato una medicina.

Ingredienti

Lo yakgwa tradizionalmente è preparato con miele, olio di sesamo e farina; di recente alcune industrie aggiungono altri ingredienti per migliorare il sapore dei biscotti.

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Caffè Nuovo

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Il Caffè Nuovo è stato uno storico caffè di Roma, chiuso nel 1879.

 

Storia

Al piano terreno del Palazzo Ruspoli (ex Gaetani), che sorge fra piazza San Lorenzo in Lucina, largo Goldoni e il Corso Umberto, c'era il Caffè Nuovo: otto sale affrescate, tra cui la Barchessa con aerei e luminosi pergolati, dipinta nel 1827 dall'olandese Lindström.
La prima decorazione ad affresco, di gusto schiettamente arcadico e oggi interamente perduta, era stata commissionata da Francesco Maria Ruspoli nel 1715 e vi avevano lavorato Pietro Paolo Cennini, Antonio Bicchierai, Antonio Amorosi, Christian Reder e Francesco Borgognone (François Simonet). Gli affreschi resistettero fino al 1838, quando furono distrutti. «Una memoria la troviamo in un dipinto di Karl Jhoan Linström La sala boschereccia al Caffè Nuovo a Palazzo Ruspoli, 1827, oggi a Roma, Museo Napoleone.»
Stendhal descrisse le sale del Caffè Nuovo in questi termini, nelle sue Promenades dans Rome, alla data 10 ottobre 1828: «Hanno grandi porte finestre, che si aprono direttamente su un giardino pieno d'aranci, le cui frutta dorate sono pronte per essere colte.» Ad aspettare gli avventori, all'ingresso sul Corso sostava il nano Giovanni Giganti, detto Bajocco (1792-1834), che faceva un curioso gioco di abilità con una monetina: la metteva sulla fronte, poi con un volteggio la lanciava in aria e la riprendeva in bocca. Alla sua morte, Bajocco meritò una citazione nel sonetto del Belli L'anima der curzoretto apostolico.


Il Perdono di Pio IX

Il 16 luglio 1846, per la sua elevazione a pontefice, Pio IX promulgò l'editto del Perdono, con il quale cancellava i delitti di natura politica, liberava dal carcere i detenuti politici e troncava i processi per delitti politici. Un tripudio di feste attraversò l'intero Stato della Chiesa: luminarie, balli in piazza, odi di ringraziamento. Qui nacque la speranza illusoria che il Pontefice poteva essere messo a capo di una Unione politica dell'Italia.
Dal racconto di un cronista del tempo sappiamo che cosa accadde al Caffè Nuovo: «Nel novero de' domestici tripudii siami lecito ricordare quello che ebbe luogo nel giardino del caffè sotto il palazzo Ruspoli, procurato dal proprietario di esso, Vincenzo Ricci. Ivi furono canti, suoni, fuochi artifiziati; e il tutto procedette col più bell'ordine, e mantenne la letizia nel popolo. Dirò pure, come l'esterna parte del caffè che guarda sul corso facesse vaga mostra per questa iscrizione:
Vivi alla felicità de' tuoi popoli
Vivi all'amor de' tuoi figli
Vivi alla venerazione del mondo.
Sulla porta poi, per cui si ha ingresso al giardino del caffè, era lo stemma del Pontefice, colla seguente iscrizione sottostante:
Ti salutino o venerato stemma le genti
Siccome aurora di giorni più avventurosi.
Tanto questa, quanto l'antecedente epigrafe furono dettate da quel vivace ingegno che è Francesco Spada.»
Nel 1847 il Caffè Nuovo fu il primo locale romano ad essere illuminato a gas.



Gli anni dell'attesa

Dopo la caduta della Repubblica romana i militari francesi furono trattati con scortesia dal personale del Caffè Nuovo, tanto che fu necessario chiuderlo. Alla riapertura, il suo nome era mutato in Café Militaire Français. Al contrario, le vittorie del 1859 furono celebrate in piena concordia, da festanti avventori francesi e italiani. Una sala del Caffè Nuovo diventò il luogo d'incontro dei poeti della Scuola romana, un gruppo di poeti e scrittori, tra cui i fratelli Giovanni Battista e Giuseppe Maccari, il giovanissimo Domenico Gnoli e il duca Giovanni Torlonia - figlio di don Marino - poeta, filantropo e collezionista di antiche iscrizioni latine. Ai tavolini del caffè sedettero Giosuè Carducci, in visita per esplorare le rovine romane ed Enrico Nencioni. I discorsi rimbalzavano dalla metrica alla traduzione di liriche dell'antica Grecia, da Dante a Orazio, da Leopardi a Cicerone. Di romanticismo, di Berchet, degli Inni di Manzoni, questi poeti non volevano sentir parlare.


Arrivo degli italiani

Dopo il 1870 il proprietario Vittorio Ricci, che possedeva anche il Caffè Veneziano, decise di cambiare ancora una volta il nome al locale che diventò il Caffè d'Italia. Ebbe poca fortuna. Nel 1874 una triste notizia di cronaca si diffuse in città: al Caffè d'Italia si era verificato un caso di suicidio. Gli avventori disertarono il locale, che decadde. Fu chiuso nel 1879, ma la nuova atmosfera della Capitale d'Italia aveva mutato i gusti degli avventori e non fu rimpianto.

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Songpyeon

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I songpyeon, noti anche come songbyeong (송병, 松餠) o songyeopbyeong (송엽병, 松葉餠), sono un tipo di dolce coreano rientrante nella categoria dei tteok, e consistono in piccole torte di riso glutinoso ripiene, a forma di mezzaluna, consumate tradizionalmente durante il chuseok, la festa di metà autunno. Il ripieno è composto da vari ingredienti, come semi di sesamo, miele, fagioli mungo, cannella, pinoli, noci, castagne e giuggiole. Vengono cotti a vapore su uno strato di aghi di pino, dai quali prendono il profumo e il nome (song significa "pino"), e in seguito spennellati di olio di sesamo.
La loro forma a mezzaluna è considerata di buon augurio e portatrice di un futuro luminoso: si tramanda infatti una leggenda secondo la quale, durante il regno di Uija di Baekje, la frase "Baekje è la Luna piena e Silla è la mezzaluna", trovata incisa sul guscio di una tartaruga, predisse la caduta di Baekje e l'avvento di Silla, profezia che si avverò quando quest'ultimo sconfisse il regno rivale in guerra.
La storia dei songpyeon è vaga, ma è credenza comune che abbiano cominciato ad essere preparati durante il regno di Goryeo, e venissero dati ai servitori.


Varietà

Esistono diverse varietà regionali di songpyeon:
  • Osaek songpyeon (songpyeon di cinque colori) di Seul: la pasta di riso viene divisa in cinque panetti, quattro dei quali vengono colorati aggiungendo un ingrediente tra artemisia (verde scuro), semi di gardenia (giallo dorato), fragole o bacche omija (rosa) e cannella (marrone) in polvere. Sono ripieni di castagne, fagioli verdi e rossi, semi di sesamo e miele. I diversi colori rappresentano l'armonia della natura.
  • Jogae songpyeon (songpyeon a conchiglia) della provincia di Pyeongan: sono ripieni di semi di sesamo, zucchero e salsa di soia, e sagomati a forma di conchiglia.
  • Nobi songpyeon (songpyeon degli schiavi) della provincia di Hwanghae: sono ripieni di fagioli rossi pelati.
  • Songpyeon a forma di fiore della provincia di Jeolla: la pasta di riso viene divisa in cinque panetti, quattro dei quali vengono colorati aggiungendo un ingrediente tra artemisia, fiori di gardenia, estratto d'uva e acqua di bacche omija. I dolci che restano bianchi vengono decorati, prima di essere cotti, con pasta colorata sagomata a forma di fiore. Sono ripieni di pinoli, sale al sesamo e zucchero.
  • Gamja songpyeon (songpyeon di patata) della provincia di Gangwon: il riso della pasta viene sostituito dalla fecola di patate. Sono ripieni di piselli, fagioli, castagne e zucchero. A Gangneung, le persone lasciano sulla superficie dei dolci l'impronta delle proprie mani.
  • Dotori songpyeon (songpyeon di ghiande) della provincia di Gangwon: alla farina di riso vengono aggiunte ghiande dal sapore amaro. Sono di color marrone.
  • Songpyeon di patate congelate della provincia di Hamgyeong: le patate congelate, simbolo del rigido inverno della zona, vengono macinate per ottenere la farina con cui fare la pasta. Sono ripieni di fagioli rossi e zucchero.
  • Mosi songpyeon (songpyeon di foglie di ramia) della provincia di Gyeongsang: alla farina di riso vengono aggiunte foglie di ramia bollite e tritate. Sono ripieni di semi di sesamo, castagne, miele e zucchero, e sono di colore verde scuro.
  • Songpyeon con polvere di radice di kudzu della provincia di Gyeongsang.
  • Chilk songpyeon (songpyeon di arrowroot) della provincia di Jeolla: alla farina di riso viene aggiunto amido di arrowroot.
  • Maehwa songpyeon (songpyeon a forma di fiore) della provincia di Jeolla: non contengono ripieno.
  • Hobak songpyeon (songpyeon di zucca) della provincia di Chungcheong: alla farina di riso viene aggiunta polvere di zucca ricavata tritando l'ortaggio essiccato. Sono ripieni di semi di sesamo, castagne e miele, e sono di colore giallo dorato.
  • Songpyeon con polvere di fagioli verdi della provincia di Jeju.
  • Songpyeon con foglia di canapa: alla farina di riso viene aggiunta la polvere ricavata tritando le foglie di canapa.
  • Songi songpyeon (songpyeon di pino): alla farina di riso viene aggiunto lo strato più interno della corteccia di pino sbriciolato.


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