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La Torta Pinza (o Putàna): Radici Contadine e Sapienza Antica in una Fetta di Dolciario Veneto

 

Nel panorama della pasticceria regionale italiana, la torta pinza, conosciuta anche come putàna nel dialetto veneto, rappresenta una delle espressioni più genuine della cultura gastronomica contadina. Si tratta di un dolce rustico, di origine popolare, che affonda le sue radici in una tradizione secolare, nata dall’ingegno delle famiglie rurali nel recuperare e valorizzare gli ingredienti poveri e gli avanzi della dispensa. Oggi, sebbene in parte rivisitata e ammorbidita da apporti moderni, la pinza conserva ancora la sua identità antica, legata al tempo della fatica e delle feste, alle stufe accese e al ritmo lento dell’inverno padano-veneto.

Il nome “putàna” può sorprendere e, fuori contesto, rischia di essere frainteso. In realtà, deriva dal termine dialettale veneto putàna, che indicava qualcosa di rozzo, grezzo, non nobile. La torta infatti veniva definita tale in contrapposizione ai dolci raffinati delle classi abbienti: non una squisitezza da pasticceria, ma un dolce “di scarto”, costruito con pane raffermo, polenta avanzata, frutta secca, qualche noce, mele in via di maturazione, fichi secchi, un bicchierino di grappa o vino rosso e, se c’era, un po’ di farina di frumento. Nessun ingrediente superfluo: tutto era razionato, tutto pesato con occhio esperto e mani avvezze a lavorare con poco.

Nata come torta della Befana o dolce natalizio, la pinza era preparata nelle settimane di fine dicembre e inizio gennaio, ma con frequenza maggiore anche nel resto dell’anno, ogni volta che si aveva pane vecchio da smaltire. Non esiste una versione canonica: ogni famiglia, ogni paese, ogni frazione ha la propria variante, a seconda delle disponibilità della dispensa e delle abitudini locali. Questo rende la pinza non solo un dolce, ma un documento vivo della cultura gastronomica orale.

La preparazione della pinza è figlia della sapienza empirica: un sapere trasmesso di madre in figlia, raramente scritto, spesso improvvisato ma sempre fondato sull’esperienza. L’impasto nasce dall’unione di diversi elementi: pane raffermo ammollato nel latte, farina di mais (preferibilmente grezza), zucchero, uova, mele a pezzetti, uva passa, pinoli o noci, fichi secchi, semi di finocchio, e, per dare profumo, un bicchierino di grappa, mistrà o vino dolce. In alcune zone si aggiungono anche zucca, cioccolato fondente a pezzetti, o addirittura salame di cioccolato, a testimonianza dell'evoluzione nel tempo del gusto popolare.

Il composto deve risultare compatto ma umido, da cuocere lentamente in forno a temperatura bassa (intorno ai 160-170°C) per almeno un’ora e mezza, fino a ottenere una consistenza ferma, scura, punteggiata dai pezzi di frutta. La torta, una volta sfornata, si conserva a lungo, e anzi migliora con il passare dei giorni: asciugandosi leggermente, sviluppa una crosta sottile che protegge l’interno morbido e aromatico.

Ricetta tradizionale (versione base)

Ingredienti:

  • 300 g di pane raffermo

  • 500 ml di latte intero

  • 150 g di farina di mais bramata

  • 2 mele renette

  • 100 g di fichi secchi

  • 80 g di uvetta

  • 50 g di pinoli o noci tritate

  • 100 g di zucchero

  • 2 uova

  • 1 bicchierino di grappa o vino dolce

  • 1 cucchiaino di semi di finocchio

  • 1 bustina di lievito per dolci (facoltativa)

  • Burro e pangrattato per lo stampo

Preparazione:

  1. Ammollare il pane spezzettato nel latte caldo e lasciarlo riposare per almeno 30 minuti, finché risulterà completamente imbevuto.

  2. Sbucciare le mele e tagliarle a cubetti, tagliare i fichi secchi a pezzetti.

  3. Aggiungere al pane ammorbidito le uova, lo zucchero, la farina di mais, la frutta secca, i semi di finocchio e la grappa.

  4. Mescolare accuratamente fino a ottenere un impasto uniforme e morbido, ma non liquido. Se l’impasto risultasse troppo asciutto, aggiungere ancora un po’ di latte. Se troppo molle, un cucchiaio di farina in più.

  5. Versare l’impasto in una teglia imburrata e spolverata di pangrattato.

  6. Cuocere in forno statico a 170°C per circa 90 minuti, controllando che si formi una crosticina dorata ma non bruciata.

  7. Lasciare raffreddare completamente prima di servire. Si conserva per 4–5 giorni, meglio se avvolta in un canovaccio pulito.

Per esaltare la struttura corposa e i profumi caldi della pinza, si consiglia l’abbinamento con un vino passito veneto, come un Recioto della Valpolicella o un Torcolato di Breganze. Entrambi i vini, con le loro note di frutta secca, fichi, miele e spezie, si sposano alla perfezione con la materia grezza e densa della torta, bilanciando la dolcezza rustica con la finezza dell’acidità residua.

Chi preferisce una bevanda calda, può optare per un caffè d’orzo, tradizionalmente servito nelle cucine contadine in alternativa al caffè vero e proprio. Anche un tè nero speziato o una tisana al finocchio completano armoniosamente la degustazione.

La torta pinza, per lungo tempo relegata al ruolo di dolce secondario o “di recupero”, sta oggi vivendo una rinascita silenziosa, sospinta da panifici artigianali, gastronomie rurali e ristoranti che valorizzano il patrimonio gastronomico locale. In alcune province venete (Treviso, Padova, Vicenza), la pinza è diventata presenza fissa sulle tavole natalizie, simbolo di un ritorno alla sobrietà saporita e alla riscoperta delle radici culinarie autentiche.

Inoltre, diverse proloco e associazioni culturali hanno riscoperto la pinza come bene immateriale, organizzando sagre e concorsi a tema. Ogni anno, ad esempio, a gennaio si tiene la “Sagra della Pinza de Befana” in numerosi paesi tra il Piave e il Brenta, dove forni all’aperto cuociono versioni più o meno fedeli alla ricetta originaria, davanti a falò tradizionali.

Nel contesto odierno, segnato da una crescente attenzione per la sostenibilità alimentare, la pinza rappresenta anche un modello virtuoso: un dolce che non spreca, che riutilizza, che trasforma ciò che è in eccesso in qualcosa di festoso. È una filosofia gastronomica che insegna a cucinare con il cuore prima ancora che con la tecnica, e a dare valore alle cose semplici.





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